L’estate bipolare del Lecco

Se il merito viene sconfitto dal burocratese e se i “termini perentori” prevalgono sul buonsenso, si ammazza il concetto stesso di competizione sportiva.

A raccontarla l’estate della Calcio Lecco sembra una di quelle relazioni bipolari: alla voce “m’ama”, “non m’ama” sostituiamo “in B”, “fuori dalla B” e il gioco è fatto. Un extraterrestre poco avvezzo alla faccende pedatorie nazionali ci prenderebbe per schizofrenici. E un po’ lo è il calcio di casa, quintessenza del nostro essere ben sintetizzata nella stracitata frase di Winston Churchill: “Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio”.

Rapido riassunto: il Lecco conquista la serie B sul campo il 18 giugno scorso, quindi viene escluso una prima volta dalla Commissione stadi Figc, riammesso dal Consiglio della stessa Figc, ribocciato dal Coni e infine di nuovo riammesso dal Tar del Lazio.

Un gattopardesco cortocircuito di tribunali e sentenze da far girar la testa. Ma non è finita qui perché il Perugia potrà fare ricorso al Consiglio di Stato: la sentenza arriverà il 29 agosto (a campionato già cominciato) e potrebbe di nuovo ribaltare tutto a due mesi e 12 giorni dal successo sportivo bluceleste. Al di là di come andrà a finire, è semplicemente un’assurda follia in un mondo che va alla velocità della luce e dove i club devono in breve tempo programmare la stagione successiva.

La speranza è che quest’estate kafkiana serva da lezione allo sport italiano e alla sua dirigenza: se il merito viene sconfitto dal burocratese e se i “termini perentori” prevalgono sul buonsenso, si ammazza il concetto stesso di competizione sportiva.

L’alternativa è rassegnarci a un Paese ancora aggrappato ad assurdi barocchismi, come il sindaco che multa un concittadino per aver riparato di tasca propria una buca sulla strada. È successo lo scorso maggio a Barlassina, non nel ‘600 degli “azzeccagarbugli” raccontato nei Promessi Sposi da Alessandro Manzoni. Lecchesissimo, ça va san dire.