GIANLUCA BOSIA
Editoriale e Commento

C’era una volta e c’è ancora il ferroviere

Nell’Italia del dopoguerra il capostazione era un’autorità nei paesi. Oggi è un lavoro dal grande futuro

C’era una volta un ferroviere. Orgoglioso della divisa e del lavoro, della cipolla di metallo che segnava le ore, del circolo del dopolavoro e dell’alloggio nella casa dei ferrovieri.

Lavorare in ferrovia per decenni assicurava l’appartenenza a una classe sociale non ben definita ma sicuramente sopra a quella operaia e simile alla piccolo borghese. Essere un capostazione poi nell’Italia dei paesi e paesotti, tra e subito dopo le due guerre, assicurava un prestigio sociale quasi pari a quello del maresciallo, del farmacista e del prete. Per i bambini avere un trenino e giocare al ferroviere poi era la realizzazione di un sogno.

C’era una volta ma c’è ancora il ferroviere anche se con il Paese è pure cambiato il mestiere e il ruolo. Il fascino però resta, così come l’opportunità di avere quello che i nostri nonni avrebbe definito un “buon lavoro”.

E allora perché non prendere in considerazione la raccolta di candidature di Trenord per diventare capotreno o operatore e tecnico di manutenzione. Un'opportunità soprattutto per i più giovani. E’ un impiego buono e sicuro che di questi tempi è una rarità. Ha un suo fascino ed è moderno nella sua tradizione. Certo, ragazzi miei, vi toccherà lavorare come milioni di italiani ma come ferrovieri sarete sempre un po’ diversi da tutti gli altri.