
L'attacco al World Trade Center di New York
Ho poco più di trent’anni e ricordo benissimo il giorno in cui crollarono le Torri Gemelli, l’11 settembre 2001. Quando ne ho parlato a una mia parente diciottenne mi ha guardato con lo stesso spaesamento con cui probabilmente io guardavo i miei genitori parlare della Guerra Fredda. Valle a spiegare che se a Malpensa deve fare la coda per i controlli in aeroporto è perché quel giorno di ventiquattro anni fa Milano e l’Italia intera scoprirono che la geografia non proteggeva più nessuno.
Viviamo ancora dentro l’11 settembre – nelle procedure aeroportuali, nelle politiche migratorie, nella geopolitica globale – ma lo abbiamo già archiviato nella memoria collettiva. Forse perché appartiene a quella categoria di avvenimenti che sono troppo vicini per essere storia e troppo lontani per essere cronaca. O forse è l’effetto collaterale di un’epoca che produce troppi eventi per poterli metabolizzare, in cui tutto accelera ma la comprensione rallenta.
Eppure fu l’inizio (o almeno lo fu per l’opinione pubblica occidentale) del terrorismo islamico, dell’interventismo americano in Medio Oriente, delle molte guerre che seguirono, della nuova espansione della Nato, della sorveglianza di massa e, a cascata, di molti altri sommovimenti di cui le odierne pagine di cronaca non sono che lontane conseguenze. Il paradosso dell’11 settembre è tutto qui: presente nei fatti, assente nella coscienza. Ed è proprio in questo vuoto che si misura la fragilità della nostra memoria.