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La pandemia e l’attuale crisi geopolitica hanno accelerato un processo già in atto da diverso tempo e che vede i giovani, in particolare i nativi digitali, essere sempre meno disposti a lavorare per pochi soldi. “Gli stessi modelli lavorativi di riferimento sono notevolmente cambiati nel tempo. Quando i quarantenni di oggi erano ragazzi pensavano all’avvocato, al notaio, al medico o al commercialista come figure professionali che potessero garantire un tenore di vita benestante. Oggi i riferimenti sono altri: influencer, networker, le professioni legate al mondo del videogaming, che garantiscono entrate economiche molto alte, con un impegno di tempo ridotto e senza la necessità di titoli di studio universitari” afferma il business coach Antonio Panìco, che ha affiancato oltre un centinaio di aziende nella loro riorganizzazione interna, ascoltando le esigenze di imprenditori e lavoratori. “Oggi la gavetta a 800 euro al mese, per poi ambire a un moderato aumento di stipendio, per lavorare 9 ore al giorno in ufficio non sono più visti di buon occhio, ma non significa che i ragazzi siano dei lavativi, o poco disposti a lavorare e apprendere. Così come non è corretto addossare tutta la responsabilità sugli imprenditori, definendoli tiranni. Sono semplicemente cambiati i punti di riferimento e stiamo pagando il prezzo di un sistema lavoro troppo costoso, che non permette ai dipendenti di essere pagati in modo soddisfacente, anche alla luce di un’inflazione galoppante”, prosegue il business coach. La ricerca “The Born Digital Effect”, condotta da Coleman Parks Research e Oxford Analytica, analizzando le risposte di 1000 leader d’azienda e 2.000 lavoratori, racconta uno spaccato che deve far riflettere le aziende. Il 58% dei leader d’azienda pensa ancora che i lavoratori più giovani preferiscano lavorare in ufficio. Al contrario, il 90% dei nativi digitali auspica un modello di lavoro ibrido se non completamente da remoto. In particolare, ...
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