DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Sonia Bergamasco: quei trentenni che si sentono sempre in bilico. E in ritardo

Un sentimento di passaggio su cui si sofferma la Bachmann ne “Il trentesimo anno”.

L’attrice Sonia Bergamasco ne "Il trentesimo anno"

Milano, 15 novembre 2016 - «La fine dei vent’anni è un po’ come essere in ritardo: non devi sbagliare strada, non farti del male e trovare parcheggio». Così canta Motta nel suo album di debutto (Premio Tenco). Bellissimo. E anche se cambiano i tempi, le parole, le altezze, è lo stesso sentimento di passaggio su cui si sofferma la Bachmann ne “Il trentesimo anno”. Dove si racconta della crisi esistenziale del protagonista, alle soglie di un compleanno dal poderoso valore simbolico. Scrittura raffinata. Musicale. Non a caso scelta con il consueto gusto da Sonia Bergamasco. Da stasera al Franco Parenti, “Il trentesimo anno” è un monologo sullo spaesamento e sul ritrovare se stessi quando vengono a mancare i riferimenti: esistenziali, linguistici, geografici.

Sonia Bergamasco, fa piacere vedere sul palco Ingeborg Bachmann. «È un’autrice che ho conosciuto presto e che ho seguito anche nel suo passaggio drastico dalla poesia alla prosa, in cui ha conservato tutta la potenza e la musicalità del suo linguaggio. “Il trentesimo anno” è uno dei primi racconti ma già possiede una forma di perfezione».

Nell’originale il protagonista è un uomo? «Una creatura, così come si descrive un momento di passaggio che potrebbe riferirsi anche ai 40 o ai 50 anni. Una crisi in cui le cose, i fatti, i pensieri si scollano improvvisamente dalle parole che li descrivono. Superare la crisi è anche ritrovare le parole per parlare al mondo, in un flusso ininterrotto e musicale».

Un flusso che però non ha nulla di joyciano, rimane narrativo. «Sì, si segue passo passo. D’altronde è anche un viaggio, il protagonista si mette in moto dentro e fuori. E alla fine ne esce».

Bella l’immagine dello scollamento con le parole. Come se il racconto fosse anche sul mestiere dello scrivere e del recitare. «Questo è un aspetto fondamentale. È la ragione per cui lo spettacolo è in realtà un lavoro fra la lettura e la messinscena. Da una parte dunque ci sono costumi e luci, dall’altra 24 cartelli che ho creato per sottolineare questo legame con le parole del libro. Parole su cui soffermarsi, da mettere da parte, da stracciare».

Non è stanca di stare sola sul palco? «Stavo cercando il mio modo di raccontare, ma è un periodo in chiusura. Lavorerò presto con altri. A marzo sarò al Piccolo dove mi hanno chiesto la regia di “Louise e Renée”, testo di Stefano Massini da Balzac, con protagoniste Federica Fracassi e Isabella Ragonese. Per la prima volta non sarò in scena».

Le sue scelte sono raffinate. Come si è trovata in un ruolo mondano come quello della madrina per la Mostra di Venezia? «Ho cercato di viverla come un’esperienza d’attore: dovevo interpretare il ruolo della madrina e l’ho fatto alla mia maniera, in nome di un mestiere che amo profondamente. E devo dire che alla fine sono stata bene».