DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Massimo Gaudioso: per fare cinema autentico devi "prendere l’autobus"

Napoletano, classe 1958, autodidatta, la sua è stata una lunga gavetta fra documentari e tv. Poi la svolta: il grande cinema

Massimo Gaudioso mostra con orgoglio il David di Donatello

Milano, 26 novembre 2016 - Un sogno ad occhi aperti “Il racconto dei racconti”. E il merito è (anche) suo: Massimo Gaudioso. Ovvero, uno degli sceneggiatori più desiderati d’Italia. Napoletano, classe 1958, autodidatta, la sua è stata una lunga gavetta fra documentari e tv. Poi la svolta: il grande cinema. E la premiatissima collaborazione con Matteo Garrone, firmando (fra gli altri) “L’imbalsamatore”, “Gomorra”, “Reality”. Ma anche successi da box office come “Benvenuti al Sud” o “L’abbiamo fatta grossa”. Per chi volesse rubargli i segreti del mestiere, oggi e domani guida il laboratorio di scrittura “Da un fatto a un film”, ospite di Acqua su Marte in via Alessandria 3. Chissà che non ci si scopra i Kubrick del futuro.

Gaudioso partiamo dal titolo: perché “Da un fatto a un film”?

«Zavattini diceva che lo sceneggiatore deve prendere l’autobus. È importante carpire storie dalla realtà, una delle migliori ispirazioni che si possano avere. Mi capita tutti i giorni che le persone mi dicano di avere una storia pazzesca da raccontarmi. La difficoltà è poi trasformare uno spunto in un film, cosa di cui in pochi si rendono conto».

Ma un autore quanto deve difendere quello che ha scritto?

«Io non sono attaccato alle mie idee e credo sia un bene non affezionarvisi troppo, si rischia la bile. Inoltre va considerato che un film è riscritto tre volte: dalla sceneggiatura, dalla regia e dal montaggio. È normale che nei vari passaggi diventi qualcos’altro».

Ci vuole più curiosità o più disciplina?

«La disciplina si acquista col tempo. È invece fondamentale la curiosità verso gli altri, la capacità di ascolto, lasciarsi trasportare dalle storie. Sono fonti di conoscenza: attraverso un racconto o un personaggio impariamo molto di noi stessi».

Come nasce la sua «vocazione»?

«Credo che la mia sia l’ultima generazione che abbia vissuto il cinema nella dimensione del sogno. Ora è un linguaggio che si impara da giovanissimi ma prima c’erano meno film e libri, non c’era il web. All’inizio lo vivevo come uno svago, era il luogo dove viaggiare. Poi ho iniziato a coltivare la passione in un contesto non facile, a cui si aggiungeva il fatto di essere di Napoli, ovvero una città non certo provinciale ma a differenza di adesso tutt’altro che centrale per il cinema. Ma la curiosità mi ha permesso di crearmi da solo, da autodidatta».

L’incontro con Garrone?

«Ci siamo in qualche modo riconosciuti. Avevamo fatto un percorso simile, ci stimavamo e condividevamo molte idee, soprattutto su cosa non ci piace del cinema. Quando mi ha chiesto se alla prima occasione poteva chiamarmi, ho accettato subito».

E cos’è che non vi piace?

«L’dea del cinematografaro, della raccomandazione, quel mondo lì. Cose che separano il cinema dal sogno. Per questo ho voluto seguire una mia strada».

Un film che avrebbe voluto scrivere?

«Tantissimi. All’estero mi viene in mente Billy Wilder. In Italia dico “I Vitelloni”, l’età dell’oro».

Su cosa sta lavorando adesso?

«Su una miniserie western diretta da Stefano Sollima da un’idea di Sergio Leone, saranno i suoi figli a produrla».