
La prima ballerina della Scala: "La danza mi fa sentire libera. E pensare che volevo fare la farmacista..."
Poetica, non si può aggiungere altro dopo aver visto l’interpretazione di Odette/Odile nel “Lago dei cigni“ di Martina Arduino. Prima ballerina alla Scala, fidanzatissima con il collega Marco Agostino, primo ballerino scaligero, Martina è già proiettata verso il “Trittico Lander / Kylian / Béjart“ che si terrà al Piermarini dal 22 settembre al 3 ottobre. Simpatica e accogliente racconta: "Ad agosto faremo un po’ di vacanze, andremo in Calabria, dove Marco, da piccolo, trascorreva l’estati con i nonni. Finalmente conoscerò i posti di cui mi parla da anni".
Martina Arduino, si sente un cigno bianco o nero? "All’inizio della carriera il cigno nero, ne percepivo il fuoco. Danzando entrambi mi sono resa conto che il cigno bianco ha una sensibilità più vicina a me; amo scavare in questo personaggio che passa dalla tristezza alla speranza. Odette sembra rassegnata alla sua condizione di cigno, intravede una luce in Siegfried ma sa che non basterà a sciogliere l’incantesimo".
Cosa significa portarla in scena? "Rispetto altri ruoli Odette richiede un’interpretazione più intima, non devo mostrare al pubblico la mia ricerca su di lei come accade con altri ruoli. Il cigno bianco non si rivolge allo spettatore sarà lui stesso a entrare nella sua storia".
Da dove nasce la sua poesia? "Credo sia innata, quando ascolto musica, in questo caso Cajkovskij, mi sento trasportata in un’altra realtà. È sempre stato così fin da piccola. A tre anni, dopo aver visto danzare mia sorella, ho chiesto di poter partecipare anch’io a un corso. Adoro Odette/Odile è stato il mio primo ruolo da protagonista, non ero ancora prima ballerina. Ho danzato il “Lago dei cigni“ pochi giorni dopo la scomparsa di mia nonna, un dolore davvero immenso, la ricordo ogni volta che mi trasformo in cigno bianco o nero".
A settembre porterete in scena tre brani leggendari del XX secolo. Come riesce a passare dal classico al moderno? "Sarà una serata ricca e varia con “Ètudes“ di Lander che da quando sono alla Scala non è mai stato fatto, una sfida per tutti noi; poi “Petit Mort“ di Kyliàn, “Bolero“ di Bèjart che ho già danzato. Credo che ogni ballerino debba rimanere aperto a qualsiasi altro stile, la novità fa paura nella vita come in scena. Un movimento inatteso mette ansia, hai paura di non essere all’altezza ma solo rinnovandoti puoi arricchire il tuo talento. Quando sono uscita dall’Accademia ero sicura di essere solo una “ballerina classica“, la Scala mi ha fatto cambiare idea; sono affamata di novità. Ballare coreografie contemporanee dà un approccio diverso alla tradizione. Quando ho ballato “Bolero“ per la prima volta ho capito di essere entrata in un mondo differente".
Quando ha capito che la danza sarebbe stata la sua professione? "Mi piaceva andare alla scuola di danza, esibirmi nei saggi ma volevo diventare farmacista. Quando sono entrata all’Accademia della Scala mi sono resa conto che la danza, la musica, mi rendevano libera".
Chi l’ha sostenuta maggiormente? "La mia famiglia, mia madre, mia nonna, mia sorella si sono trasferite con me a Milano, papà è rimasto a Torino ma veniva spesso. I miei sono sempre stati presenti, se si consumavano le scarpette da ballo mamma correva ad acquistarne un altro paio senza che glielo chiedessi. Sono stati i miei primi fan, mi hanno permesso di essere me stessa; quando sbagliavo per loro ero sempre unica e brava. Questo amore così solido e indulgente l’ho ritrovato in Marco".
E chi le ha donato un pizzico di magia? "Mia nonna, sapeva trasformare il quotidiano in straordinario. Se eravamo tristi ci insegnava a fare i biscotti, se in frigo non era rimasto quasi nulla ci regalava pranzi eccellenti, le sue patate fritte erano speciali; a volte dopo cena, ci portava il gelato a letto, come augurio di buona notte. È stata la nostra fata, ha reso la nostra infanzia felice e indimenticabile".