
Luciana Savignano
Milano, 9 dicembre 2016 - “Danzatrice anomala”, “idolo orientale”, “ballerina moderna”: tre delle etichette più utilizzate per Luciana Savignano, un’artista dal profilo incisivo, personale, distinto da quello delle star cresciute in casa Scala, ma vocate, diversamente da lei, soprattutto ai classici in tutu di grande repertorio. In omaggio alla sua peculiarità è nato un libro, “Luciana Savignano, l’eleganza interiore”, che l’autore Emanuele Burrafato, danzatore-scrittore, presenterà nel Ridotto dei Palchi della Scala domani alle 17, in dialogo con il critico Elsa Airoldi e in presenza della danzatrice molto speciale cui il volume è dedicato.
C’è tanto da raccontare ripercorrendo la carriera straordinaria di una ballerina che non ha avuto timore di affrontare le esperienze più diverse, di migrare, di tornare, di continuare a vivere in palcoscenico con naturalezza.
«Quando ho compiuto cinquant’anni - dice - sono andata a trovare Maurice Béjart e gli ho chiesto cosa avrei potuto fare a quel punto; lui si è stupito e mi ha risposto che la danza non è fatta di soli fouetté e che un’artista come me poteva fare ben altro e di più». Sta forse in queste parole una delle chiavi del cammino non comune che vede tuttora in scena Luciana, adesso 73enne? Saggiamente lei afferma: «Non voglio starci per forza, ma se ci sono cose giuste per me, le faccio. Sono curiosa e mi piace mettermi alla prova, dalla danza contemporanea con Susanna Beltrami al tango».
Certo Béjart l’ecumenico è stato il coreografo che ha imposto l’immagine di questa singolare ballerina italiana sui palcoscenici del mondo - basta ripensare al “Bolero”, alla “Luna”, a “Bhakti” - e ne ha marcato il percorso. «Gli sono piaciuti il mio fisico proiettato verso il futuro, la mia grande duttilità, il mio modo di assimilare le sue coreografie e di metterci del mio; lui mi plasmava e io rispondevo, naturalmente». Un’attitudine di approccio molto avanzata per i tempi, aperta ma forte di una formazione canonicamente classica alla scuola milanese, con perfezionamento al Bolscioi di Mosca.
Ed è stato alla Scala, dove divenne étoile nel 1975 e si misurò con lavori di tanti coreografi di primo piano, il primo incontro con Béjart per cui interpreterà poi tanti titoli, legandosi al braccio destro del Maestro, a Micha Van Hoecke, poi a lungo autore per e con lei. Luciana ha danzato anche per il grande rivale di Maurice “il mago”, Roland Petit, tra l’altro in “L’angelo azzurro”, come femme fatale: cosa ricorda di lui, molto presente ora nei nostri teatri? «Era meno profondo di Béjart e amava la bellezza; un danzatore doveva anzitutto piacergli».
Quali foto del libro la rappresentano meglio? «Io in foto non mi piaccio mai, sono molto critica». Un titolo memorabile in cui è stata creatrice del ruolo? «Nel 1968, alla Scala, il ‘Mandarino meraviglioso’ di Pistoni su Bartók, avanguardistico». Un collega, un coreografo, che rimpiange? «Paolo Bortoluzzi, anche lui da Béjart; eravamo in grande sintonia. Andrebbe ricordato più spesso, come gloria italiana».