
Antonio Calabrò
Milano, 20 dicembre 2015 - L’ossessione. Per un taglio di luce, un gesto, un volto, un intreccio di note. L’ossessione, come essenza del carattere d’un artista. Per un’espressione originale, un’opera che sfidi e vinca il tempo. La conosce bene, quell’ossessione, Antonello, quando, ancora bambino, scopre la pittura e s’incanta davanti al “Trionfo della morte”, il grande terribile dipinto che orna una parete di Palazzo Sclafani, nella Palermo del Quattrocento. È arrivato lì al seguito del padre, “mazzono” e cioè scalpellino. Ma non vuole fare il garzone di quell’umile mestiere familiare. Davanti al “Trionfo”, sente che la sua vocazione è diventare pittore. E ci prova, inquieto e curioso, lasciando la Sicilia e cercando nel mondo la magia delle luci e dei colori. Lo racconta Silvana La Spina, in un romanzo forte e bello, “L’uomo che veniva da Messina”, edito da Giunti: la passione di Antonello per i segreti della pittura a olio, carpiti ai fiamminghi, l’incanto davanti alle opere di Van Eyck e l’amore divorante per la figlia Griet, che gli ispirerà una delle sue opere più belle, “L’Annunciata”, i colori imparati dalla scuola fiamminga ma le geometrie e il manto presi dalla lezione di Pietro della Francesca. L’ossessione è tutta nel gesto di quella mano della Vergine che sembra voler fermare per un istante l’annuncio della maternità, per capirne meglio il senso e il valore, ma fors’anche, nella particolarissima lettura di Antonello artista che mira al sublime, voler rallentare il tempo o ancora, nell’uomo innamorato di Griet che fa da modella, voler bloccare la morte.
C'è nel libro, il vagare dell’artista tra Messina, Napoli, Bruges, Firenze, Milano, la Venezia dei Bellini e la Mantova di Mantegna, per tornare nella Messina ribelle e ingrata. Le tensioni politiche e artistiche dell’Italia che anima l’Umanesimo e prepara il Rinascimento. Gli incubi e il degrado d’un uomo che solo da artista riscatta debolezze, pensieri infimi e azioni ignobili. Perché l’arte, va inseguendo. E, malvivendo, la fine della vita. Le conoscono, quelle tensioni, anche Michelangelo e soprattutto Caravaggio, al centro del terzo volume de “Il tesoro d’Italia”, curato da Vittorio Sgarbi per Bompiani. “Dal cielo alla terra” - Da Michelangelo a Caravaggio -, è il suo titolo. Lo splendore rinascimentale cede il passo alle inquietudini del Seicento, preparando il Barocco. E quegli artisti, da Tiziano a Tintoretto, da Veronese a Bassano e Parmigianino, raccontano una tormentata stagione di ricerche e sperimentazioni. L’uomo è un impasto di luce e buio, anche nel profondo dell’animo. Già, la ricerca. D’una esecuzione fedele e contemporaneamente originale. Ci provano i due giovani studenti di piano, alle prese con “La Toccata in do maggiore” di Robert Schumann, al centro dell’omonimo, essenziale, prezioso racconto di Antoni Libera, Sellerio: preparano l’esame d’ammissione all’Accademia musicale di Varsavia, cercano tra le note la bellezza d’una esecuzione oltre la tecnica. Uno ci riuscirà, l’altro cambierà vita. Per ritrovarsi, da adulti, di nuovo davanti a una tastiera, per eseguire e ascoltare quella Toccata. Con commozione. Musica, come “un’espressione dei fondamentali conflitti circa l’anima e il destino degli uomini”. Dai caratteri della “commedia umana”, tra l’arte e la vita, Francesco Recami ricava una “Piccola enciclopedia delle ossessioni”, per Sellerio. Lettura e letteratura. Mondanità. Cinismi. Vizi italiani, scarse virtù. In certi casi, sentirsi o dirsi artisti è un paravento. Di cui disvelare, con ironia, l’impostura, la fragilità.