
Danio Manfredini
Molte domande. Poche risposte. È un periodo così. Anche per il teatro. Ma ci sono incontri che chiariscono un po’ l’orizzonte. Succede con Danio Manfredini. Cresciuto qui a pane, ricerca e spazi occupati. "Tre studi per una crocifissione", "Al presente", "Cinema Cielo" hanno segnato un paio di generazioni di spettatori e di artisti. Eppure è la prima volta che arriva al Piccolo. Normale? Da stasera è al Grassi con "Nel lago del cor", prodotto da La Corte Ospitale. Musiche di Francesco Pini. Una settimana di repliche. Per l’incubo di un deportato che ripercorre sfinito il proprio passato. Danio, perché concentrarsi sulla Shoah? "Ho iniziato a studiarla dopo un viaggio ad Auschwitz. Materia scioccante da attraversare, mi ha condotto verso ciò che da sempre interessa la mia ricerca: l’umano. Mi sono mosso per indizi, d’altronde non ho mai un’idea precisa quando parto. L’unica certezza è quella di non sapere, poi affiora una direzione". Chi è il protagonista? "Un deportato soverchiato dalle esperienze fatte, ossessionato dal passato. tanto che la mente fatica a stare sul presente. Durante una marcia cade a terra e rimane lì, con la speranza che qualcuno lo raccolga. Al suo fianco un angelo/soldato americano. È una dimensione onirica, un incubo soggettivo, senza alcuna pretesa di precisione storica". Adorno scriveva dell’impossibilità della parola poetica dopo Auschwitz: cosa rimane invece della speranza? "È un tema universale, anche per come svela il conflitto fra ciò che vorremmo e la realtà. Io evito il naturalismo e mi sposto in una dimensione altra attraverso il movimento, le musiche, le immagini. Ma in fondo non c’è altro che la grande solitudine dell’essere umano". Quali i riferimenti? "Molta letteratura e saggistica legata al tema, i grandi autori, da Primo Levi ad Hannah Arendt. Ma è stato importante anche «Shiviti» di Yehiel De Nur, la visione di un deportato attraverso l’Lsd". Come ha vissuto questo periodo? "Sono stato chiuso alla Corte Ospitale per mesi, non vedendo nessuno. Non mi era mai capitato. A Milano ho trovato invece impressionanti le notti vuote, così distanti da questa città. Certo l’esperienza ci ha segnato, quantomeno nel non dare più ogni cosa per scontata. Tutta la nostra progettualità, i discorsi sul futuro. Poi basta un fatto inaspettato e ciao". È la prima volta che arriva al Piccolo. "Sì, un po’ strano a pensarsi. Ci sono stato solo per ritirare i Premi Ubu...". Ma ha voglia di tornare finalmente a teatro? "Quando devo andare in scena sono sempre preoccupato. Il teatro esiste nel quotidiano, è una pratica che caratterizza le mie giornate anche se non mi espongo agli spettatori. Il teatro credo sia un luogo di grande valore umano. Mette in luce i nostri limiti, ci chiede di prendere consapevolezza di paure, conflitti, desideri. L’impressione è che sia spesso preda di tensioni competitive, di ambizioni che deformano il senso vero dell’arte. Mentre si tratta solo di stare un po’ in silenzio. Camminare, guardarsi intorno. Ma stando in silenzio".