Silvia, la figlia di Giuseppe Pinelli: "Quando mio padre regalò Spoon River a Calabresi"

"La polizia venne a casa e scartò i regali di Natale. Rispetto la famiglia del commissario. La poesia sulla tomba. Mai avuta giustizia, ma oggi la fede mi aiuta a vivere"

Licia e Giuseppe Pinelli con le figlie Silvia (a destra) e Claudia

Licia e Giuseppe Pinelli con le figlie Silvia (a destra) e Claudia e

Uno scambio di libri e molti misteri. A cinquant’anni dall’omicidio del commissario Mario Calabresi, e a 53 dalla morte del genitore, il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dal quarto piano della questura di Milano in circostanze mai chiarite, la figlia Silvia si racconta, rivela il rapporto inedito di suo padre con il poliziotto che lo indagava e ripercorre quegli anni dolorosi, che causarono il lutto di due famiglie così diverse, ma di pari, enorme dignità.

- Cominciamo dalla fine, Silvia. Cosa ricorda lei e cosa provaste in famiglia quando si seppe dell’omicidio di Calabresi?

“Io avevo dodici anni e mia sorella undici. Mia madre quel giorno stava andando al lavoro, e solo quando vi arrivò sentì confermare la notizia, di cui qualcuno aveva accennato alla fermata del bus. Era in pieno svolgimento il processo che il commissario aveva intentato contro Lotta Continua per diffamazione. Nei giorni successivi mi madre si sentì derubata della possibilità di arrivare alla verità. Provò dolore per la famiglia di Calabresi, certo, la poteva capire bene. Ma per noi fu anche un tornare indietro”.

In che senso?

“Da quel giorno ricominciarono le lettere e le telefonate anonime, ed era indifferente che rispondesse un bambino o un adulto. Con precise minacce: ve la faremo pagare. Tanto è vero che mia madre andava al lavoro sempre molto preoccupata perché temeva che fossimo seguite”.

- Veniamo al 1969, la morte di suo padre. Ricorda come ha vissuto quel trauma a nove anni?

“Ho due ricordi indelebili. Il 12 dicembre, a casa, trovammo la polizia che perquisiva l’appartamento. Era molto angusto e assistemmo anche all’apertura dei regali di Natale che i nostri genitori avevano già nascosto negli armadi. E poi la notte tra il 15 e il 16 dicembre, quando apprendemmo la notizia dai cronisti che si presentarono alla porta di casa. Mamma telefonò in questura e chiese perché non fosse stata avvisata. Le risposero che avevano molto da fare. Allora chiamò alcuni amici che ci portarono a casa loro, mentre altri la accompagnavano in ospedale”.

- Cinquant’anni dopo come si è evoluto il suo dolore?

“Il dolore di una perdita violenta e ingiusta rimane tale per sempre. Mio padre era una persona molto allegra e ci seguiva molto. Però il dolore va anche elaborato, se diventa rabbia fine a se stessa fa male a anche a chi lo provao. Bisogna trasformarla in memoria. Raccontare Pino per noi è un modo per farlo rivivere”.

- Sulla tomba di suo padre, a Carrara, c’è una poesia tratta da Spoon River, il libro che suo padre aveva regalato a Calabresi. Perché?

“Era uno scambio di cortesie, mio padre era conosciuto in questura perché andava a chiedere i permessi per le manifestazioni. Mentre indagava su di lui, il commissario gli aveva regalato un libro, “Mille milioni di uomini”, di Emanuelli, e lui gli mandò l’”Antologia di Spoon River” per ricambiare, il suo libro preferito. La poesia sulla tomba è  "La macchina del Clarions", tratta dall'Antologia, una poesia sulla giustizia che parlava degli anarchici di Chicago”.

- Solo tre giorni fa Gemma Calabresi ha detto parole molto belle di perdono verso gli assassini del marito. Cosa le ha raccontato sua madre Licia dell’incontro che aveva avuto con la vedova del commissario?

“Si incontrarono il 9 maggio 2009, quando venimmo invitati al Quirinale. E fu molto importante. Avevano fatto anche il viaggio in aereo insieme, senza saperlo. Poi si ritrovarono sedute vicine. Si strinsero la mano e finalmente si parlarono. Come dieci anni dopo, quando Mattarella salì a Milano e ci ritrovammo per un saluto con la signora Capra e il figlio Mario. Parlarono anche dei nipoti e dei figli…”.

- Ma non parlarono mai di quel che accadde.

“Non era quello il luogo. Non è la famiglia che deve dare le risposte che noi cerchiamo da sempre. E’ lo Stato che è sempre stato latitante, anzi omertoso. Nei confronti della famiglia Calabresi noi proviamo solo vicinanza per il dolore che hanno subito. Loro non hanno nulla a che vedere con quanto accaduto”.

- Lei si è fatta un’idea di quel che accade nel ‘69?

“C’è un’intervista del generale Maletti che racconta come dovrebbero essere andate le cose in quella stanza. Io non so cosa sia accaduto davvero, so e sappiamo che nostro padre è stato ucciso in questura, dove venne privato di ogni diritto, trattenuto oltre le 48 ore in modo illegale e da dove usci attraverso la finestra del quarto piano nella notte”.

- Mai nessuna riposta?

“Qualsiasi richiesta avanzata dalla famiglia è sempre stata archiviata in fretta, prima come suicidio, poi come morte accidentale, infine come dovuta a una presunta alterazione del centro dell’equilibrio. La nostra causa civile per risarcimento è stata rigettata. Come accaduto per le vittime di piazza Fontana, e tutti siamo stati anche condannati a pagare le spese processuali. Mai richieste, per fortuna”.

- Cosa prova quando passa davanti a quelle due lapidi così diverse in piazza Fontana?

“Una lapide è una lapide, due fanno un monumento. Danno l’idea anche di come si faccia fatica ad affrontare una verità storica. "Morto tragicamente" e "ucciso innocente" sono domanda e risposta. Come può un innocente morire tragicamente in una questura? La risposta è nella lapide originaria”

- Suo padre era un uomo dagli ideali molto solidali. Che insegnamento le ha lasciato?

“Era uno dei fondatori della Croce Nera Anarchica, nata per dare sostegno ai compagni anarchici perseguitati in Spagna. Con il 68-69 molti degli attentati di quegli anni venivano infatti imputati agli anarchici. E il gruppo sosteneva le spese legali e mandava loro libri in carcere. Cosa mi è rimasto di lui? Un grande esempio di coerenza, di antifascismo e di pacifismo. Di una vita vissuta pienamente, fin da quando abbracciò la Resistenza”.

- Quegli anni soni lontani e con essi le lotte sociali. Ma molti dei problemi di allora permangono.

“Se non ci fosse stata la lotta sociale dubito che ci sarebbero state molte conquiste, che peraltro oggi stiamo perdendo, dallo statuto dei lavoratori alle legge sul divorzio. Non è stato un periodo sbagliato. Ci sono stati molti scontri, ma molte conquiste le dobbiamo a quel periodo”.

- Ultima domanda: lei ha fede? Crede in un altrove dove le persone che si sono amate si possano ritrovare?

“Io sono cattolica praticante, faccio la catechista e faccio parte del consiglio pastorale parrocchiale. Ho una fede profonda, anche nell’uomo. C’è sempre, spero, un lato buono in ognuno di noi”.

- La fede è una scommessa, si dice.

“No, la fede è un dono. E a me dà la forza per dare un senso all’esistenza”.