Omicidio Lidia Macchi: "Non l’ho uccisa, ecco il mio Dna". La sfida di Binda ai magistrati

Delitto Macchi, sì dell’accusato al prelievo di un campione di saliva ma davanti ai magistrati resta in silenzio di GABRIELE MORONI

Svolta nel caso Lidia Macchi, un arresto. Nella foto Stefano Binda (Newpress)

Svolta nel caso Lidia Macchi, un arresto. Nella foto Stefano Binda (Newpress)

Varese, 20 gennaio 2016 - «Io so che non ho fatto nulla. Ho fiducia che si risolva. Ho fiducia nella Giustizia». Davanti ai magistrati, Stefano Binda sceglie per due volte il silenzio. Con chi gli è vicino esterna fiducia, si mostra tranquillo al punto da chiedere se in in carcere esiste una biblioteca. Acconsente senza riluttanza a rilasciare un campione di saliva. Servirà per estrarre il suo Dna che verrà comparato per la seconda volta con quello rimasto sulla busta che conteneva lo scritto «In morte di un’amica», fatto arrivare ai familiari di Lidia Macchi il 9 gennaio del 1987, il giorno dei funerali della studentessa assassinata. La consulenza calligrafica ha attribuito la grafia a Binda, ma il codice genetico ricavato dalla linguetta della busta non coincide con quello dell’uomo di Brebbia, rimasto su una sigaretta.

Stefano non risponde. Decide di tacere nell’interrogatorio di garanzia condotto dal gip Anna Giorgetti, che alle dieci del mattino entra nel carcere varesino dei Miogni in compagnia del sostituto procuratore generale Carmen Manfredda per uscire giusto un’ora dopo. Attorno alle 13 il pg ricompare e si materializzano anche gli agenti della Scientifica della questura di Varese per il prelievo di saliva. Ancora una volta l’uomo in cella per omicidio pluriaggravato opta per il silenzio. Non sono ancora le tre del pomeriggio quando giornalisti, fotografi, troupe televisive, iniziano a smobilitare. Affiorano, distillati dal trascorrere delle giornate, nuovi particolari sugli ultimi giorni della vita di Lidia Macchi. Poche settimane prima di morire, trafitta da ventinove coltellate, Lidia confidò alla madre una sua paura: c’era un amico che girava con un coltello.

Non ne fece il nome, non disse dove abitava. Un ricordo sbiadito che mamma Paola ha recuperato nella memoria per riferirlo alla pg Manfredda e agli investigatori della squadra mobile. Lidia Macchi e l’uomo sospettato di essere il suo assassino militavano in Comunione e Liberazione. Su Varese sono tornati ad aleggiare antichi fantasmi forse mai esorcizzati. «No, non c’è davvero niente da dire», riferisce ai cronisti Marco Pippione, dirigente scolastico, che aggiunge: «Che storia tragica, davvero tremenda». Per lui assolutamente nulla che abbia valenza giudiziaria, nessun comportamento censurabile. Il nome di Pippione compare nell’ordinanza di custodia. Una volta resosi conto di essere indagato, Binda avrebbe individuato Pippione come possibile tramite per riavvcinarsi al vecchio gruppo di Comunione e Liberazione. Chi conserva una nitida memoria di quella fosca epopea è Gianni Spartà, firma storica del giornalismo varesino: «Ero cronista e venni invitato a un incontro. Mi trovai davanti lo stato maggiore di Comunione e Liberazione del tempo che mi raccomandò prudenza e delicatezza nel seguire il caso». E CL di oggi? «Vedo la stessa ostinata, e comprensibile da un punto di vista cristiano, riservatezza. Con la differenza che oggi, rispetto ad allora, un militante di CL, amico di Lidia, si trova arrestato con un’accusa di omicidio». di GABRIELE MORONI