Le imprese familiari lombarde, l’analisi del docente: “L’amara illusione del piccolo è bello. Crescere è il futuro”

Alessandro Minichilli, ordinario al dipartimento di Management e Tecnologia all’Università Bocconi di Milano: “Le nostre realtà? Ancora giovani e fragili davanti ai mutamenti. Regole chiare e apertura per andare oltre lo scoglio generazionale”

Alessandro Minichilli, ordinario al dipartimento di Management e Tecnologia all’Università Bocconi di Milano

Alessandro Minichilli, ordinario al dipartimento di Management e Tecnologia all’Università Bocconi di Milano

"Lo stato di salute delle imprese familiari italiane? Apparentemente è buono: continuano a dare risultati positivi, se operano in continuità". Alessandro Minichilli, ordinario al dipartimento di Management e Tecnologia all’Università Bocconi di Milano, si occupa proprio di gestione di aziende e business familiare. E l’avverbio che utilizza - "apparentemente" - apre una riflessione profonda sulla reale condizione delle dinastie lombarde.

La cessione di Saras è solo l’ultima di una serie di eccellenti ritiri. Quel fase sta vivendo il capitalismo familiare?

"Intanto una serie di dati preliminari. Si parla di dinastie, ma il capitalismo italiano è ancora giovane. Gran parte delle aziende affronta ora il primo ricambio generazionale. In secondo luogo, le dimensioni medie delle società sono ridotte rispetto ai competitor europei. E realtà piccole affrontano con maggiore difficoltà svolte come la riconversione ecologica. Germania e Francia hanno una volta e mezza la nostra produttività anche per le dimensioni delle aziende, più efficienti. Il che influisce in modo pesante sulla produttività e questa sui salari. Concludendo: le famiglie sono degli straordinari azionisti. Ma è vero se sono capaci di gestire il cambiamento".

Perché fatichiamo?

"C’è anche una responsabilità politica. Per anni si è cavalcata l’idea che piccolo sia bello a ogni costo. Invece lo scopo è espandersi. Chi non ha aspirazione alla crescita in fondo non è un vero imprenditore".

Che fase attraversiamo oggi?

"Siamo forti in alcuni settori tradizionali, l’alimentare e il lusso, fra gli altri. Ma siamo ancora indietro su settori di frontiera, come quello digitale. Ora viviamo la prima grande ondata di ricambio, dove spesso cedere diventa una necessità. Ci sono situazioni di mercato positive, ma il cambiamento sta portando anche a cessioni e delisting. E gli azionisti di piccole imprese magari in difficoltà preferiscono vendere. La vera domanda è come continuare".

E allora come si continua?

"Comprendendo anche che servono alcuni elementi chiave. Molte delle dinastie, che sono in realtà poche e piccole, si interrompono. E per la longevità servono alcuni elementi chiave. Regole chiare e gestione della governance, per non subire cambi repentini o vuoti. Serve programmazione e capacità di investire. La gran parte delle famiglie di imprenditori ha tutti i fondi investiti in azienda. Una generosità che però impedisce di ricorrere a risorse extra quando necessario. Talvolta, invece, chi ha le risorse manca di cultura di gestione. Preservare la ricchezza è un elemento di cultura essenziale per la continuità. Bisogna lavorare sulla consapevolezza. Molte aziende non crescono perché non si sono aperte per tempo a soci, altri capitali, altre energie. Un famoso manager dice che il modello migliore è quello dell’impresa familiare aperta. Aperta a investimenti, managerialità e cultura".

Consigli pratici?

"Una governance magari semplice, ma con regole chiare. Il ricambio va pianificato subito. Quando si entra in carica. In Italia il 30% dei capi azienda ha oltre settant’anni... Pensavamo che nel tempo la proprietà delle aziende familiari si frammentasse, col seguirsi delle generazioni. In realtà si concentra, almeno stando ai primi dati delle nostre ricerche. Questo dà l’idea dell’ossessione di controllo che esiste. Favorita anche dalle norme e dalla politica. E invece le dinastie vere, quelle che magari hanno anche duecento anni, funzionano nel resto d’Europa proprio perché hanno regole chiare. Anche se la proprietà si frammenta. Concentrarsi può essere un rischio, di certo è un segno di chiusura".