
Waldo Bernasconi
Como,1 aprile 2015 – Conferma della sentenza di primo grado, ma con una quantificazione della pena che ha risentito della prescrizione di alcune accuse. Così ieri, i giudici della Corte d’Appello di Milano, hanno ridotto a 6 anni e 6 mesi – rispetto ai 7 anni e 6 mesi iniziali - la condanna di Waldo Bernasconi, il terapeuta di Lugano, con casa di cura anche a Como a Cascina Respaù, che aveva creato uno staff per la cura di anoressia e bulimia. A Como era stato riconosciuto colpevole di esercizio abusivo della professione sanitaria, ora andata prescritta, e di alcuni casi di abusi sessuali, ma prosciolto dall’associazione a delinquere finalizzata alla truffa. Leggermente ridotte anche le condanne per due collaboratori, entrambi accusati di abusi sessuali su pazienti: per Pietro Billari e Isaac George, una condanna in appello di 4 anni e 6 mesi.
Il sostituto procuratore generale di Milano Gaetano Santamaria, aveva chiesto la conferma delle condanne di primo grado, al netto delle contestazioni prescritte, ma soprattutto il riconoscimento delle principali imputazioni con cui il terapeuta e i suoi collaboratori erano finiti a processo: l’associazione a delinquere e la truffa alle aziende sanitarie. La storia processuale di Waldo Bernasconi e del suo staff, per anni impegnato nella cura di anoressia e bulimia, è iniziata nell’ottobre 2010, quando davanti al Tribunale Collegiale di Como erano arrivati sette imputati, con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata all'esercizio abusivo della professione sanitaria - medico, psicologo e psicoterapeuta - ma anche a mettere a segno una serie di truffe ai danni dei pazienti privati e Asl, «incentrate sulla somministrazione di costose pseudo-cure a persone afflitte da disturbi dell'alimentazione e del peso«. Anoressia e bulimia, curate attraverso la teoria elaborata dallo stesso Waldo Bernasconi, e da lui battezzata «noereichiana». Un giro d’affari da oltre dieci milioni di euro, oltre quattrocento pazienti. Le ragazze, arrivavano alle due case di cura attraverso «numeri verdi« e siti internet. Ma il primo grado aveva prosciolto una parte degli imputati.