Brescia – Il 28 maggio 1974 nel cuore di Brescia, mentre era in corso una affollata manifestazione sindacale contro la recrudescenza di atti violenti di matrice fascista, esplose una bomba che uccise otto persone – Giulietta Banzi, Livia Bottardi, Clementina Calzari, Alberto Trebeschi, Euplo Natali, Luigi Pinto, Bartolomeo Talenti e Vittorio Zambarda – e ne ferì oltre cento. È trascorso mezzo secolo da quella mattina, un tempo lungo il quale la macchina della giustizia ha macinato sette inchieste e 18 processi – il 17esimo e il 18esimo stanno per iniziare – con 32 imputati.
Un tempo che ha permesso di cristallizzare una verità che ormai non è più solo storica, ma giudiziaria: a firmare la strage, in piena epoca della ‘strategia della tensione’, fu la destra eversiva degli ex ordinovisti, in una ‘relazione pericolosa’ con pezzi di forze dell’ordine, di servizi segreti e di apparati della Nato deviati, pronti a tutto pur di rovesciare il regime democratico e instaurare un potere forte. È questo lo scenario tratteggiato dalla sentenza Conforti del 22 luglio 2015, quando la Corte d’assise d’appello (bis) di Milano condannò all’ergastolo il medico veneziano Carlo Maria Maggi, il leader di Ordine nuovo del Triveneto al quale erano legati a doppio filo i neofascisti bresciani. La sentenza divenne definitiva il 20 giugno 2017 ed è il frutto di un fascicolo di oltre un milione di pagine curato dai pm Francesco Piantoni e Roberto Di Martino, l’unico in questi 50 anni sfociato in due condanne passate in giudicato.
Quella di Maggi, appunto, individuato quale il regista dell’eccidio di Brescia e l’ideatore della ‘strategia della tensione’ – morì ai domiciliari nel 2018 – e quella di Maurizio Tramonte, il settantenne padovano ex spia del Sid - il servizio segreto militare - che era a conoscenza di tutte le trame nere, ‘intraneo’ agli ambienti dell’eversione, scrissero i giudici, ma che non fece nulla per impedire la strage. Dal canto suo l’ex ‘Fonte Tritone’, in carcere a Fossombrone, si professa innocente. Ha provato pure a giocarsi la carta della revisione, ma la Corte d’appello di Brescia ha rigettato l’istanza ribadendo per lui il fine pena mai. Il condannato superstite per la strage di piazza Loggia tuttavia non si dà per vinto, dichiara di non essere affatto uno stragista, ed è pronto a depositare una seconda richiesta di revisione dell’ergastolo.
E adesso? L’ennesima inchiesta della procura di Brescia ha sfornato i nomi di due presunti esecutori materiali: Roberto Zorzi e Roberto Toffaloni, due ex ordinovisti veronesi amici dei camerata bresciani. Sono stati loro, sostengono il procuratore aggiunto Silvio Bonfigli e il pm Caty Bressanelli, a piazzare i candelotti di gelignite nel cestino dei rifiuti sotto i portici in piazza quella mattina di pioggia. Per il primo il processo inizierà in Assise il 18 giugno, per il secondo, che all’epoca aveva 16 anni, si partirà il 30 maggio. Sebbene oggi sia ultrasettantenne, ironia della sorte, sarà davanti al tribunale dei minori. In quasi 300mila pagine di atti gli inquirenti scrivono un nuovo capitolo della storia dei misteri italiani, con nomi e cognomi degli uomini delle istituzioni – Sid, carabinieri, polizia – accusati di avere coperto e depistato la bomba.
Ma ci sono anche i nomi del cosiddetto ‘terzo livello’, quello della Nato e del comando delle forze alleate. A Verona, nella città di Toffaloni e Zorzi, a palazzo Carli, presunto quartier generale Nato, si sarebbero svolte riunioni preparatorie di un progetto stragista per sovvertire la democrazia italiana a favore di un regime di colonnelli. Il tutto con il benestare, anzi, con la copertura, di generali dei paracadutisti italiani e statunitensi.