BEATRICE RASPA
Cronaca

Linee d’ombra su Piazza Loggia. La verità di Giraudo su Zorzi: "Depistaggi dal primo giorno"

Brescia, il generale del Ros ha ricostruito un pezzo dello scenario sull’ex ordinovista veronese. Dal quadro emergono ufficiali di dubbia trasparenza, verbali mai redatti e alibi cambiati

Linee d’ombra su Piazza Loggia. La verità di Giraudo su Zorzi:: "Depistaggi dal primo giorno"

Il generale del Ros, Massimo Giraudo

Brescia – Ufficiali ambiziosi di dubbia trasparenza, verbali mai redatti, alibi che cambiano. Continua in Assise il processo a Roberto Zorzi, l’ex ordinovista veronese accusato di essere uno degli esecutori materiali della strage di piazza Loggia. È proseguita la deposizione del generale dei carabinieri Massimo Giraudo, ex comandante del Ros, investigatore di spicco sulle stragi. L’inchiesta, che porta a processo il 71enne Zorzi, parte dal 4 marzo 2015, quando l’ex camerata di Anno Zero Umberto Zamboni riferì a Giraudo che il giorno della strage incontrò alla Gran Guardia Stefano Romanelli. Da lui seppe che Zorzi ("Il nostro Roberto") aveva "fatto il botto".

I collegamenti tra neofascisti bresciani e veronesi sono stretti: accanto al corpo del ventenne Silvio Ferrari, saltato per aria la notte del 19 maggio 1974 in piazza Mercato, furono trovate 5 copie della rivista Anno Zero, gruppo in cui erano confluiti molti estremisti neri di ON. Il collegamento fu confermato il 21 maggio, ai funerali di Ferrari. "Nei tafferugli vennero fermati cinque giovani veronesi armati, aderenti e simpatizzanti di On. Sulla bara fu deposta una corona di fiori con un’ascia bipenne, simbolo di On - ha detto Giraudo -. A commissionarla fu Zorzi, presente al funerale, e che si diede a precipitosa fuga su una Fiat 600 targata Verona, di proprietà della madre di Zamboni, che gliel’aveva prestata. A bordo furono trovati passamontagna, una mazza, volantini di Anno Zero e uno striscione “Freda libero“. Inspiegabilmente la polizia interruppe gli accertmenti il 22 maggio. La 600 torna in un’informativa dell’ex capitano dei carabinieri di Brescia Francesco Delfino il 24 maggio, il quale sapeva che con Zorzi c’erano tre persone".

Un uomo ambiguo, Delfino. Partì a razzo con le indagini sulla strage - ambizioni di carriera, sostiene la Procura - sospettò subito di Zorzi ma poi si fermò. Il 28 maggio inviò fonogramma ai colleghi di Verona: "Pregasi effettuare urgenti indagini per stabilire chi viaggiava il 21 maggio su Fiat 600 targata Verona 164247. E pregasi. dopo avere identificato occupanti, di sentirli in ordine a presenza in Brescia in mattinata odierna". Si sentì rispondere che i militari avevano eseguito un “appiattamento“ sotto casa di Zorzi. "Nessuno fece nulla per identificare chi ci fosse sulla macchina, l’abbiamo fatto noi 50 anni dopo". In un foglio spillato al fonogramma, sul retro, il primo alibi di Zorzi. Che ne diede tre, contrastanti. "Il 28 maggio è rimasto a casa fino alle 10,30". Il 27 giugno 1974 Delfino, rispondendo alla compagnia di Merano che voleva aprire un fascicolo sul sospettato, allegò un manoscritto alla pratica 18/78, relativa alla strage. "Una copertura per mascherare un documento cancellato".

L’appunto era datato 3 giugno e si riferiva all’interrogatorio di Zorzi in caserma a Verona, il 29 maggio. Senza data. "Zorzi ha ammesso di essere stato al funerale di Ferrari con la 600", si legge. La mattina del 28 maggio invece era rimasto a Verona, al bar delle filovie di Porto San Giorgio, fino alle 11 a bere bibite da solo. Ricompare il 7 agosto in un rapporto di Delfino alla magistratura: i sospetti su di lui non avevano portato a nulla. L’alibi si arricchì di due strani testimoni: "Zorzi aveva sostato al bar di Porto San Giorgio: la signorina Daniela, figlia del titolare, era certissima della sua presenza almeno fino alle 10 con due conoscenti. È apparsa sincera e disinteressata". Nessun verbale della ragazza, né riscontro. Uno dei testimoni non fu mai identificato perché inesistente, l’altro è il fidanzato di una parente.