FEDERICO MAGNI
Cronaca

Cime inviolate, il bresciano Leo Gheza apre una nuova via tra le pareti del Karakorum

Con Francesco Ratti e Alessandro Baù ha tracciato la strada: "Sapevamo che lì c’era qualcosa ancora da scoprire"

Da sinistra, con le ghirlande, Alessandro Baù, Francesco Ratti e Leo Gheza

Da sinistra, con le ghirlande, Alessandro Baù, Francesco Ratti e Leo Gheza

Brescia - ​Le Torri di Trango sono maestose cattedrali di roccia che si innalzano imponenti, fino a superare i seimila metri, nel cielo del Karakorum. Dominano il ghiacciaio del Baltoro, lingua di ghiaccio che scende dal K2 e dagli altri colossi di ottomila metri del Pakistan. Un oceano verticale di granito rossastro al cui cospetto un uomo non può che sentirsi minuscolo, davanti alla natura selvaggia. È stato questo il terreno di gioco con il quale si è confrontato l’alpinista camuno Leo Gheza, 31enne di Esine, in compagnia di Francesco Ratti e Alessandro Baù per quasi un mese di spedizione. Alla prima esperienza fra i giganti del Pakistan i tre climber sono riusciti ad aprire una spettacolare via su una maestosa “pinna” di roccia, l’Uli Biaho Spire di 5.620 metri. Il risultato è stato “Refrigerator Off-width”, 510 metri con difficoltà fino al 7b. “Un nome, un dato di fatto. Il nome ricorda la fresca brezza che usciva dal grosso e largo diedro al centro della parete”.

Gheza, come è stato il primo impatto con le Cattedrali di Trango?

"Era la prima volta per tutti e tre in Pakistan. La roccia è fantastica e a livello scenografico quello del Baltoro è un ambiente meraviglioso. Sei circondato da montagne e pareti impressionanti".

Qual era l’obiettivo della spedizione?

"L’idea è nata da me e Francesco. L’anno scorso abbiamo scalato in Nepal. Ma siamo stati impegnati su vie di misto (ghiaccio e roccia) e quest’anno volevamo cambiare. Ci attirava molto l’idea di scalate a Trango e così abbiamo coinvolto Ale. L’obiettivo comune era quello di aprire una nuova via. Non sulle Torri di Trango, ma nei dintorni. E sapevamo che nella zona dell’Uli Biaho c’era qualcosa ancora da scoprire".

È stata una sorpresa quel diedro ancora inviolato?

"È un posto piuttosto famoso con il quale si sono confrontate infinite spedizioni già dagli anni Ottanta. Trovare quella linea è stata una sorpresa e una fortuna. Io credo sia rimasta libera fino ad oggi perché l’avvicinamento alla base della parete è decisamente complicato rispetto a quello delle altre torri. Bisogna affrontare un canale stretto che, nelle ore calde della giornata, scarica parecchio e rischia di diventare pericoloso. Bisogna stare molto attenti ed è il motivo che ha tenuto molti alla larga".

E la via?

"Più o meno come ce l’aspettavamo. Il tratto al centro della parete è caratterizzato da una fessura molto larga, nella quale è difficile proteggersi da eventuali cadute. Avevamo solo due friend (ancoraggi rapidi, ndr ) del 6, ma sarebbero state utili misure più grandi".

Avete affrontato un bivacco in parete?

"Sì, abbiamo dovuto montare due amache una sopra l’altra poco sopra la metà della via. Più o meno dove la linea poi vira a sinistra".

Durante la spedizione c’è stato anche tempo per dare sfogo a un’altra sua passione, quella per il volo...

"Dopo solo un giorno di campo base avevamo deciso di sfruttare una finestra di bel tempo per acclimatarci. Abbiamo scelto la Great Trango Tower, 6.230 metri. Abbiamo passato la notte a 5.400 metri, le temperature erano altissime, le neve sfondava e i seracchi in alto scarivano. Abbiamo deciso così di nuoverci di notte, alle 5 del mattino seguente eravamo in cima. Con la speranza di volare mi ero portato il parapendio nello zaino e poco sotto la cima, sul ghiacciaio, ho trovato un bel pendio. Ho corso più che potevo e sono decollato. L’atterraggio ero riuscito a ricavarlo in un piccolo spiazzo a fianco della morena a circa venti minuti dal campo base. È andato tutto liscio e i miei compagni siamo rientrati dopo qualche ora puntuali per il pranzo".