Terremoto Turchia, il sopravvissuto bergamasco: "Ho rischiato di morire due volte"

Marcello Carbone era in un albergo di Kahramaranmaras, città epicentro del sisma: "Scossa violentissima, poi una volta fuori freddo e pioggia. Ci siamo scaldati in una casa rimasta in piedi"

Villa d'Ogna (Bergamo) - “Erano le tre di notte e stavo dormendo tranquillamente nel mio letto dell'hotel Clarion a Kahramaranmaras quando una scossa violentissima mi ha scaraventato contro la parete. È stato tutto così improvviso che all'inizio non riuscivo neppure a capire cosa fosse accaduto, poi ho visto cadere calcinacci dal soffitto e ho realizzato”.

Comincia così il racconto di Marcello Carbone, 54enne di Villa d'Ogna (Bergamo) tecnico meccanico nel settore dei macchinari per il tessile abituato da molti anni a viaggiare per il mondo. Ha anche una lunga militanza come volontario nella protezione civile della Valseriana, un'esperienza 25ennale che gli è stata utile in questi giorni, per agire lucidamente senza cedere al panico. L'aereo partito da Istanbul sta completando il lungo viaggio da Kahramaranmaras, città epicentro del sisma che nel sud-est della Turchia e in Siria ha fatto oltre 15mila vittime, alla sua casa di Villa d'Ogna in Valseriana, dove l'attende una bella famiglia: i due figli nati da un precedente matrimonio, Federico e Lorenzo, la compagna Sabina e i figli di lei. Filippo e Sabina.

Distruzione a Kahramaranmaras
Distruzione a Kahramaranmaras

Non ha valigie, le sue sono rimaste in quell'albergo insieme al passaporto, solo un cambio acquistato per le necessità immediate. “Quando ho capito cosa stava accadendo, mi sono vestito velocemente e precipitato fuori dalla stanza mentre dai soffitti continuavano a cadere calcinacci e la terra tremava sotto i miei piedi. La mia stanza era al terzo piano dell'albergo. All'inizio non riuscivo a trovare le scale, ero salito sempre in ascensore e non avevo pensato a localizzarle: di solito negli hotel non si fa attenzione a cose del genere. Dopo un po' ho visto una porta col maniglione antipanico e per fortuna sono riuscito a scendere per le scale ancora quasi intatte. L'uscita verso l'esterno però era bloccata. Ho incontrato alcuni altri clienti dell'albergo in fuga: insieme siamo riusciti a liberare la porta dai calcinacci e a guadagnare l'uscita. Fuori pioveva forte e faceva un gran freddo: per fortuna io mi ero vestito, ma c'era gente che si era precipitata fuori in pigiama o in mutande e maglietta. Ci siamo messi sotto un albero per ripararci in qualche modo dalla pioggia, in pochi minuti però ci siamo ritrovati fradici e gelati fin nelle ossa”.

“La terra continuava a tremare – prosegue Carbone – e non c'era da pensare di rientrare in qualche edificio. L'hotel dall'esterno sembrava intatto ma tutto intorno i palazzi erano crollati su sé stessi: uno scenario impressionante. Io e i miei compagni di sventura, un ragazzo napoletano e alcuni pachistani, abbiamo visto che qualche altro gruppetto accendeva fuochi per scaldarsi e sono andato a cercare legna per fare lo stesso, ma serviva a poco. Intanto alcune persone sono entrate in un supermercato e hanno preso cibo e acqua da distribuire a chi era fuggito in strada e stava cercando vicini e familiari in quel caos di macerie: molti scavavano a mani nude. Verso l'alba sono arrivate anche le prime ruspe dei soccorritori”. “A un certo punto si è avvicinato un giovane turco che mi ha chiesto a gesti di badare a un anziano, credo fosse suo padre, mentre lui andava, suppongo, in cerca di altri parenti. Non parlo una parola di turco e i due ovviamente non sapevano l'italiano: ho cercato di trattenere l'anziano, ma lui non ne ha voluto sapere e si è allontanato”.

“In quei momenti prevale l'istinto di sopravvivenza, ognuno pensa a salvarsi – riflette il tecnico – però per fortuna scattano anche potenti meccanismi di solidarietà tra sconosciuti. Insieme ai clienti dell'hotel abbiamo pensato di andare nell'ufficio di uno di loro, una costruzione recente che speravamo fosse rimasta intatta. Abbiamo camminato per otto chilometri solo per scoprire che l'edificio dagli originari tre piani si era ridotto a uno solo. A quel punto non sapevamo che fare: fradici e sfiniti, dopo essere scampati alle scosse rischiavamo la morte per ipotermia. Abbiamo visto una casetta a un piano intatta, abbiamo forzato la porta e ci siamo rifugiati dentro: non c'era riscaldamento ma almeno eravamo al coperto e lo spazio ristretto permetteva di scaldarsi un po'. Intanto erano arrivati alcuni amici dei ragazzi con due auto e a turno ci rifugiavamo dentro col riscaldamento acceso per scaldarci un po' e fare asciugare i vestiti”.

“Intanto tentavo senza successo di chiamare casa per rassicurare tutti che ero vivo e stavo bene. Non si riusciva a telefonare perché probabilmente i ripetitori erano danneggiati. Solo dopo diverse ore sono riuscito a mettermi in contatto con la mia compagna, ma ogni volta che tentato di parlare mi si spezzava la voce, troppo forte l'emozione di realizzare quanto vicino alla morte mi ero trovato. A Kaharamanmaras,  avevo anche comprato gli anelli, perché al rientro intendevo fare una sorpresa a Sabina chiedendole di sposarmi: anche quelli sono rimasti nelle valigie che ho abbandonato in hotel fuggendo, chissà se riuscirò a recuperare tutto. Viaggio spesso per lavoro e i bagagli sono una seconda casa per me. Certo di fronte all'immensa tragedia avvenuta un paio di valigie hanno davvero scarsa importanza. E comunque Sabina mi ha detto che la sorpresa più bella che potessi farle è di essere vivo e incolume”.

“Ma per tornare a quella notte, dopo mezzogiorno i miei compagni hanno deciso di dirigersi verso la città di Kayseri dove c'è un aeroporto: amici e compagni di lavoro tra di loro, hanno deciso che anche io facevo parte del gruppo e mi hanno aiutato. Grazie a loro (e al portafogli che tengo sempre legato alla tasca dei pantaloni) sono riuscito a prendere un aereo per Istanbul e ora torno a casa. Non vedo l'ora di riabbracciare la mia compagna e i miei figli. Sono stato molto fortunato, e certo non potrò mai dimenticare questa esperienza drammatica. Mi sarà utile, credo, anche per il mio impegno nella protezione civile”.

“Ho sentito parlare di ritardi nei soccorsi – conclude Marcello Carbone – ma posso testimoniare che le strade già 12 ore dopo il terremoto erano intasate dai camion carichi di ruspe e mezzi per gli scavi. In quelle condizioni però era già tanto riuscire a fare 20 o 30 chilimetri in un'ora. Noi per fare 270 chilometri abbiamo impiegato otto ore: la carreggiata era sprofondata in più punti per le scosse e si susseguivano le bufere di neve, potete immaginare il caos. Credo sinceramente che data la situazione non si potesse fare di più”.