GIULIO MOLA
Cronaca

Bergamo, il calvario dell'ex presidente Atalanta: "Vedere mio papà mi dava la forza"

Alessandro Ruggeri sa che la decisione della Consulta "può rappresentare una svolta", però sottolinea che l’argomento "è molto delicato"

Ivan Ruggeri con il figlio Alessandro

Bergamo, 25 novembre 2019 - Cinquantasette lunghissimi mesi. Tanto è durato il calvario di Ivan Ruggeri, colpito da un’emorragia cerebrale il 16 gennaio 2008 mentre si recava al Centro Sportivo di Zingonia e spentosi il 5 aprile 2013 senza aver mai più ripreso conoscenza. Per quasi cinque anni l’ex presidente dell’Atalanta ha vissuto in stato “vegetativo“, passando dall’ospedale di Pavia ad un centro specialistico della vicina Svizzera nella speranza di qualche segnale di risveglio.

Sempre assistito da premurosi medici e infermieri ma soprattutto circondato dall’amore dei familiari che quando potevano lo riportavano nella sua casa di Bergamo alta, «perché sapevamo che lì avrebbe percepito di essere nel suo ambiente», ricorda oggi il figlio Alessandro, che dopo la cessione del club alla famiglia Percassi è rimasto nel mondo del calcio come consulente (fra gli altri, anche di Paulo Sousa). «Furono anni di sofferenza - dice - ma senza mai abbandonare la speranza, che poi si affievoliva... Quanto era forte, papà». Alessandro apre lo scrigno dei ricordi, l’emozione diventa forte: «Quando penso a lui, mi viene in mente la sua voglia di vivere, fino all’ultimo. Una persona con un altro carattere si sarebbe lasciata andare, invece lui ha lottato come un leone».

Alessandro Ruggeri sa che la decisione della Consulta «può rappresentare una svolta», però sottolinea che l’argomento «è molto delicato, che ognuno ha la propria opinione che deve essere rispettabilissima. Quelle sono situazioni che ti toccano nel tuo intimo, e spesso chi parla e chi giudica non ha avuto la sfortuna di provarle sulla propria pelle. E io non auguro a nessuno di vivere quel che è successo alla mia famiglia». Una pausa, poi Ruggeri jr riprende: «Noi abbiamo cercato sempre di guardare avanti con fiducia. Perciò quando potevamo riportavamo papà a casa, perché da nessuna parte ricevi l’amore che la tua famiglia può donarti. Certo, non era facile, la casa non era normale ma ricordo quando rientravo e lui era lì, con mia mamma Daniela e mia sorella Francesca che lo assistevano. Io lo salutavo e lui solo con lo sguardo ti dava una forza e un insegnamento fortissimi, straordinari. Perché papà mi ha insegnato tanto non solo quando stava bene, ma anche durante la malattia. Aveva la capacità di trasmetterti una grande forza, anche solo con uno scambio di sguardi. Ma soprattutto ci ha fatto capire che la vita è il dono più grande che ci sia».