Dopo l’ergastolo il ricorso in appello "Sono innocente, non ho ucciso lo zio"

Migration

La sua versione da quando lo zio Mario la sera dell’8 ottobre 2015 sparì dalla fonderia di famiglia a Marcheno, Giacomo Bozzoli (nella foto) non l’ha mai cambiata. “Sono innocente“ ha ribadito. La Corte d’assise però lo scorso settembre ha condannato il 37enne all’ergastolo. Ora l’unico imputato dell’omicidio ci riprova a scrivere un finale giudiziario diverso. La difesa, con gli avvocati Luigi, Giovanni e Giordana Frattini, ha depositato il ricorso in appello, chiedendo l’annullamento della sentenza della Corte presieduta da Roberto Spanò. Un ricorso denso di punti, formali e sostanziali. A cominciare dal fatto che il nipote sarebbe stato condannato per un’imputazione diversa da quella originaria: la Procura generale per anni aveva ritenuto che Giacomo avesse aggredito lo zio allo smontare del turno nel reparto rottami e poi si fosse sbarazzato di lui infilandolo sulla sua Porsche Cayenne. Ma all’esito dell’esperimento del maialino gettato in un forno disposto dalla Corte - era il 27 aprile - gli inquirenti hanno modificato le accuse, aprendo alla possibilità di un omicidio in concorso con altri, con il forno grande come baricentro. Un’ipotesi avallata dai giudici, che hanno ritenuto Giacomo il mandante di un’esecuzione compiuta con gli addetti ai forni Giuseppe Ghiardini e Oscar Maggi, e la connivenza dell’operaio Aboagye Akwasi e del fratello Alex. Vi sarebbe poi il tema di un’inutilizzabilità di un’intercettazione ambientale cruciale e del mancato contraddittorio chiesto dalla difesa con i consulenti dell’accusa Cristina Cattaneo e Michele Cibaldi, che avevano escluso l’eliminazione nel forno. Ma la sentenza andrebbe annullata anche per ragioni sostanziali. A carico di Giacomo non vi sarebbe una prova. Mario alle 19,12 quando chiamò la moglie Irene per dire che stava staccando, riferì di essere in ritardo. L’accusa colloca la morte pochi minuti dopo quella telefonata, e la ‘pietra tombale’ sarebbe la fumata anomala delle 19,18. A portare in auge la possibiltà che in realtà l’imprenditore avesse un impegno misterioso, e che fosse ancora vivo dopo la famigerata fumata, vi sarebbe Abu (a processo raccontò di avere incrociato il titolare alle 19,30) e l’allarme tardivo lanciato da Irene Zubani per il mancato rientro del consorte. Nel ricorso ha una parte importante anche Giuseppe Ghiardini, l’operaio che per l’accusa si avvelenò ingollando cianuro. Che per l’Assise non resse al peso di aver aver avuto una parte attiva nell’omicidio. Beatrice Raspa