Bossetti, è finita: in carcere a vita per l'omicidio di Yara

La corte di Strasburgo non ha ammesso il ricorso dei legali del muratore bergamasco

Massimo Bossetti (Ansa)

Massimo Bossetti (Ansa)

Bergamo, 29 settembre 2019 - Terminano i possibili gradi di giudizio. Si chiude la quarta e ultima porta sull’ergastolo che Massimo Bossetti sta scontando per l’omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate di Sopra scomparsa la sera del 26 novembre 2010 e ritrovata senza vita tre mesi dopo, il 26 febbraio del 2011. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto inammissibile il ricorso dei legali del muratore bergamasco contro la condanna al carcere a vita resa definitiva dalla Cassazione nell’ottobre di un anno fa. Per l’artigiano di Mapello non rimane ora che l’unica e difficile strada della revisione del processo.   La decisione della Cedu è contenuta in una stringata delibera in inglese: «La richiesta Bossetti c. Italie (no. 201510/19) è stata dichiarata inammissibile da una giuria a Giudice Unico nel settembre 2019. Il rappresentante del richiedente è stato informato di ciò tramite lettera. Tale lettera definiva che, alla luce di tutto il materiale in suo possesso e nella misura in cui le materie contestate erano di sua competenza, la Corte riscontrò che i criteri di ammissibilità specificati negli articoli 34 e 35 della Convenzione Europea sui Diritti Civili non erano stati raggiunti». L’articolo 34 stabilisce che «la Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, organizzazione non governativa o gruppo di privati che sostenga d’essere vittima di una violazione da parte di una delle Altre Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi protocolli». L’articolo 35 fissa che è «irricevibile ogni ricorso individuale» se «è incompatibile con le disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli, manifestamente infondato o abusivo; o il ricorrente non ha subito alcun pregiudizio importante».

I legali di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, avevano affidato il ricorso a Stefano Marcolini, docente all’Insubria. Era fondato su alcuni punti, da sempre capisaldi della difesa. La mancata ripetizione dell’esame del Dna impresso sugli slip e i leggings di Yara, architrave dell’accusa e della condanna perché giudicato sovrapponibile a quello dell’indagato. Il mancato accoglimento della richiesta di analizzare alcuni reperti, in particolare gli indumenti, le scarpe e tutto ciò che la vittima aveva addosso o nelle tasche. «Non abbiamo - dice Salvagni - potuto vedere nessun reperto, neppure il più banale. È stata impedita ogni possibilità di una reale difesa. Non ci sono state concesse le uniche cose che servivano. Stiamo lavorando per la revisione, un lavoro lungo, laborioso, anche se abbiamo già raccolto importanti elementi»