Sempre più negozianti stranieri danno lavoro agli italiani: è l’integrazione di via Padova

I nuovi residenti sono giovani coppie e neolaureati di Anna Giorgi

Raffaela ha trovato il posto con un datore di lavoro pachistano (Newpress)

Raffaela ha trovato il posto con un datore di lavoro pachistano (Newpress)

Milano, 18 settembre 2015 - Non è facile raccontare via Padova, perché quella strada lunga poco più di tre chilometri, che nasce come naturale prolungamento della commercialissima Buenos Aires, è un viaggio tra cinquanta etnie, un mosaico di umanità, un luogo in cui il mondo ti viene addosso. I peruviani che friggono i polli, il bar del Bangladesh, un ristorante cinese, un meccanico, un pusher, l’estetista italiana, l’alimentari indiano, poi c’è il degrado in zona Transiti, ci sono la “piccola Lima” e “Casablanca due”. Luci e ombre dell’unico quartiere veramente multietnico di Milano, il melting pot ha punti forti e punti deboli che si intrecciano in un paradosso solo apparente, se c’è integrazione. E via Padova mostra i primi segni di un riscatto, di quella che in termini di sociologia urbana si chiama «gentrificazione», i segnali concreti di una maggiore e sempre più convinta integrazione a dispetto delle polemiche politiche sulla sicurezza. Lo raccontano i dati, non le opinioni.

Per la Camera di commercio in via Padova ci sono circa 400 imprese straniere su un totale di 600. Gli egiziani sono il 30%, i cingalesi il 20-25%, i cinesi il 15-20%, queste le principali etnie di imprenditori. Ma il dato nuovo è che ogni impresa straniera dà lavoro in media a tre addetti, il 20% dei quali è italiano. I nuovi datori di lavoro, in questo contestato angolo di Milano, sono gli immigrati. Il dato in numeri assoluti: in via Padova si stimano circa 1.200 dipendenti di negozi o attività commerciali gestite da stranieri, di questi dipendenti - assunti a tempo indeterminato e con contratto regolare - 220 circa, sono italiani. Un numero che aumenta in media del 10% ogni anno. Se fino a una decina di anni fa lo schema, in questa zona, era il titolare italiano con dipendenti stranieri o il titolare straniero con dipendenti connazionali, ora la situazione sta cambiando. In meglio, se si considera nei termini di un processo di integrazione. E a confermare la tendenza c’è tutto un quadro di tessere che si incastrano a formare il puzzle di un quartiere che fino a qualche anno fa era decisamente «out».

I dati sulla criminalità, ad esempio. Nel 2008-2009 gli omicidi tra stranieri, rapine, furti e risse avevano imposto l’obbligo di servizi mirati da parte di polizia e carabinieri, a distanza di sette anni la situazione della criminalità da strada, quella che genera la percezione di maggiore insicurezza, ha subìto una brusca frenata. I furti, le rapine, le lesioni e le risse, cinque negli ultimi sei mesi, sono decisamente in calo, secondo prefettura e questura. Sganciandoci dai dati tecnici e dando un’occhiata anche agli studi delle agenzie immobiliari il fenomeno di ripopolamento di via Padova è in mano a giovani. Negli ultimi cinque anni, sette acquirenti di casa su dieci sono italiani. E il resto sono immigrati di seconda generazione, già socialmente inseriti.

«Via Padova è diventata più appetibile, il profilo del nuovo residente – spiegano gli agenti Tecnocasa della zona – è molto chiaro: neolaureato con impiego sicuro, coppia giovane di professionisti con figli piccoli». Oppure gli hipster, artisti amanti delle affascinanti e disordinate periferie multietcniche, che proprio periferie non sono perché a due passi da piazzale Loreto e dalle zone più servite. E se i prezzi degli appartamenti sono ancora abbordabili e quindi attirano, si crea un circolo virtuoso, perché chi compra oggi sarà poi la generazione del futuro di via Padova. Se tutti gli elementi vanno nella stessa direzione, si può sperare che la zona subisca quel processo che in altre città europee globalizzate è già avvenuto, come nella giamaicana Brixton a Londra, o come è stato per la più sofisticata Meatpacking a New York, dove la ferrovia sopraelevata, la high line che collegava tutte le fabbriche in disuso della zona, case di disperati fino agli anni Novanta, è diventata un giardino sospeso su Chelsea, una galleria di arte contemporanea open air.

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