Gallinari, il bello del basket italiano: dai fischi alla conquista della Nba

Tenace, silenzioso, volto pulito, è diventato un leader. Anche degli azzurri

Danilo Gallinari quando vestiva la maglia della EA7 allenata da Scariolo

Danilo Gallinari quando vestiva la maglia della EA7 allenata da Scariolo

Milano, 10 luglio 2016 - Da Graffignana alle stelle. Passando per Milano, New York e Denver. Danilo Gallinari, dalla piccola provincia al sogno Nba: leader silenzioso, volto pulito e sorridente, uno che - per usare un modo di dire molto in vaga - «non se la tira». In America insegna lo stile italiano tanto che in molti lo ritengono uno scapolo d’oro, ma non ha dimenticato da dove arriva.

Cosa fa infatti quando torna in Italia? «Rivedo gli amici storici di Graffignana, un piccolo paesino di 2500 anime, e andiamo nei posti in cui siamo cresciuti. Sono rimasto molto legato a loro. Non si possono mai tradire gli affetti».

Quando era più piccolo cosa sognava? L’Nba era già nel mirino? «In realtà i primi sogni erano legati solo alla Serie A e alla Nazionale. Ho iniziato ad innamorarmi di questo sport grazie a mio padre: respiravo l’atmosfera degli spogliatoi e pensavo che avrei fatto tutto il necessario per diventare un professionista. Quando poi è arrivata la chiamata dall’America ero carico come una molla. Non ho avuto mai paura di non farcela perché ho fiducia nei miei mezzi. Se non si riesce a gestire la pressione bisogna fare un altro lavoro».

Il primo impatto, però, è stato più negativo rispetto a oggi quando ormai è considerato una vera star... «È vero. Ai Knicks c’era grande attenzione mediatica e gli infortuni alla schiena non mi hanno facilitato. Quando sono stato scelto al draft i tifosi di New York mi hanno fischiato ma fortunatamente ero preparato: mi aveva avvertito il mio agente che sarebbe finita così, il pubblico della Grande Mela è estremamente esigente. Il sistema americano è molto diverso, ci sono tantissime partite e gli spostamenti sono più difficili, faticosi anche a livello fisico. Milano-Napoli è un viaggio non paragonabile a New York-Los Angeles. Bisogna adattarsi e alla svelta».

A proposito di Milano: cosa si sentirebbe di chiedere al nuovo sindaco, Giuseppe Sala? Come vorrebbe trovare la città quando tornerà a viverci? «Gli chiederei di curare maggiormente le attività sportive della città. In particolare di sistemare i tanti campetti da basket che hanno bisogno costante di manutenzione. Hanno un’importanza sociale notevole e possono aiutare chi vuole avvicinarsi alla pallacanestro: creano grande inclusione, insegnano regole di vita; le grandi amicizie possono nascere al playground».

Se le dico Olimpia a cosa pensa? «A Giorgio Armani, un benefattore. Ha salvato il basket a Milano. Ho promesso che tornerò all’Olimpia ma non è ancora il momento, ho tanti desideri da soddisfare nella Nba. Vorrei giocare in America fino ai 35 anni e poi finire la mia carriera qui. Ma da protagonista, non voglio fare il capitano dalla panchina. Resto molto legato all’EA7 e ai suoi tifosi che mi dimostrano sempre tanto affetto ogni volta che mi presento al Forum per sostenere la squadra».

Non ci si tatua Fiero il Guerriero così per caso... «Infatti. L’ho fatto di impulso, l’estate che stavo per trasferirmi a New York. L’ho fatto a sinistra, dalla parte del cuore».

Giocando a Milano però dovrebbe rinunciare all’8. Sa, è ritirato per un certo D’Antoni che suo padre dovrebbe conoscere abbastanza bene... «Mi adatterei senza problemi. Mi basterebbe aggiungere un secondo 8».

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