Muore nel camper "bollente": era uno chef, ma faceva la fame

La storia di Mario, dai ristoranti in India al terremoto in Abruzzo e alla miseria

L'intervento dei soccorsi

L'intervento dei soccorsi

Milano, 8 agosto 2017 - Mario è morto dentro il suo camper, sotto un sole che lo ha fatto diventare un forno a 60 gradi. Lo ha trovato l’amica Daniela: rannicchiato nel letto, di fianco alla catasta di vestiti. «Gli ho toccato il collo, rigido – racconta –. Io però il battito lo sentivo. Mi hanno detto che era impossibile, che era il mio cuore che mi rimbombava nella testa. Mi ha salutato così. Aveva il turno alla Croce Rossa, faceva il volontario».

Lo hanno trovato sabato, quando all’una di notte l’asfalto di viale Ungheria buttava fuori ancora l’umido della giornata ardente. Morto in casa, solo che la sua casa era un camper del 1979, ingiallito dai viaggi e dal tempo, con le mollette di legno a fermare i finestrini e la radio con le cassette. Sul parabrezza i segni dei viaggi, le vignette per passare i confini, i bollini della svizzera. Un foglio, firmato dal sindaco di Castelvecchio Subequo, provincia dell’Aquila: «Mario Santilli risiede in uno dei Comuni colpiti dal sisma del 6 aprile 2009». La storia di Mario è quella di un viaggiatore. Quelli che cercano la fortuna, lasciando l’Italia. È cresciuto con il papà operaio, pugliese. Lavorava in una multinazionale in giro per il mondo e dietro si portava il figlio. È cresciuto con il nonno minatore: prendeva una pensione dopo essersi ammalato di silicosi sotto le cave, e con quei soldi aiutava il nipote.

Nel 1993 Mario decide di tornare in India, dove aveva passato l’infanzia. Faceva lo chef, «in ristoranti stellati», ricordano gli amici, «pluripremiato, era stato incoronato terzo chef migliore di tutta l’India. Nel suo ristorante di Pune, vicino Mumbai, «La dolce vita», ci sono passati tutti: il Sandokan Kabir Bedi, ma anche politici italiani, reali e vip». Poi, una storiaccia. «Parlava di polizia indiana e mafia che gli avevano bruciato la casa e gli dicevano «o te ne vai o ti accusiamo di omicidio e sono casini. È iniziato il declino». Nel 2008 prende la moglie Sonja e torna in Abruzzo, chiede aiuto. Lo ascolta un blogger del paese, Giovanni Pizzocchia, che fa un appello. «Storia triste, faceva i mercati, guadagnava poco. Eppure parlava sette lingue. Il terremoto lo ha distrutto. È partito, non è più tornato». Era andato a Milano con il suo camper, «lo chiamava Romeo, tutto quello che aveva». E dentro Romeo ci è morto. Con la radio accesa e le tendine colorate tirate. Come se potessero bastare quelle a ripararlo dal sole infernale. «Ogni tanto esagerava. Un bicchiere di troppo. Una pastiglia. Una dose – racconta Daniela –. La vita era stata ingiusta con lui, nessuno se la sceglie, no?». Se l’era scelta così, Mario. Con tre figli da due mogli diverse. Da chef di ristoranti stellati, a servire alla mensa dei poveri. A godersi la bella vita e poi piombare giù, negli inferi. La storia di Mario è la storia di tanti Mario a Milano. Seduti sui marciapiedi, dentro i dormitori, sdraiati sotto i ponti. «Sa cosa diceva sempre? – ricorda Daniela –. Che voleva solo una cosa da questa vita che lo aveva violentato ma anche lui ogni tanto violentava. Diceva: voglio solo sentirmi un essere umano».

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