Quell’esercito di duemila latinos ancora da strappare alla strada

Dopo gli arresti, il lungo recupero tra comunità e alloggi controllati di LUCA BALZAROTTI

Gang sudamericane

Gang sudamericane

Milano, 17 febbraio 2016 - Duemila affiliati solo a Milano. Quindici pandillas, bande di latinoamericani che si contendono spazi del capoluogo lombardo e dei Comuni dell’hinterland. Parchi, parcheggi, fermate di metropolitane sono terre da conquistare. Ambienti dove ricreare quella cultura di provenienza a cui sono stati “strappati” non ancora adolescenti per ricongiungersi alle madri già emigrate in Italia per lavoro. Da una decina d’anni, Milano convive con le bande latine, strutture piramidali simili a quelle mafiose: ci sono capi, vice e affiliati a cui vengono affidate missioni come rapine e aggressioni. A raccontarle è stato Edoardo (nome di fantasia), il ventenne ecuadoriano che sulle pagine de «Il Giorno» ha rivelato la vita da latinos all’interno della Ms-13, la Mara Salvatrucha, una delle bande più violente, responsabile dell’aggressione al capotreno con il machete. Edoardo ne era già uscito, trovando il coraggio di denunciare alcuni connazionali. Come lui altri giovani sudamericani al centro di procedimenti penali cercano di ricostruirsi. E di ricominciare con l’aiuto di comunità che li seguono nei periodi di prova concessi dai giudici. La cooperativa Arimo con sede a Carpignago di Giussago (Pavia), a pochi chilometri dalla Certosa, si occupa di latinos da cinque anni. Conta una comunità e alloggi. «Nell’ultimo anno - dichiara Luca Cateni, educatore e responsabile di «Chiavi di casa», progetto finalizzato all’accompagnamento all’autonomia di ragazzi in difficoltà o sottoposti a procedimenti penali tramite la collocazione in appartamenti assistiti tra Pavia e Milano - ne abbiamo seguiti tre. Uno è in corso ed è un caso che sta procedendo positivamente: serve tempo, non si può disegnare il percorso che dalla banda porta al recupero come una linea retta. Ci sono alti e bassi, cadute e riprese che vanno oltre i tempi dei procedimenti penali».

«I GIUDICI si prendono un bel rischio. Però...». Si interrompe Luca Cateni, educatore che ha accompagnato una decina di latinos fuori dalle bande con il progetto «Chiavi di casa» della cooperativa Arimo.

Però?

«Se riuscissimo a cancellare lo stereotipo di giovani ubriaconi e tatuati che si danno alla delinquenza, capiremmo che è un rischio che vale la pena correre per valorizzare le loro capacità».

I giudici lo corrono?

«Alcuni sì. Altri meno».

Hanno paura?

«Non dico questo, ma la cronaca influenza».

Come?

«Diventano più severi in corrispondenza di risse e arresti: concedere per un periodo di prova la libertà a un ragazzo che ha commesso un reato è una responsabilità forte. Se dovesse ripetere il reato...».

È successo di recente?

«Sì».

Quando?

«Con l’aggressione al capotreno».

In cosa consiste il periodo di prova?

«È un tempo in cui il ragazzo deve soddisfare alcuni parametri a livello comportamentale e relazionale e dimostrare un effettivo cambiamento».

Come si ottiene?

«Va chiesto durante il procedimento penale, in una fase successiva all’ammissione del reato».

A quel punto quale percorso si attiva?

«Dipende se si tratta di maggiorenni o minorenni e dal grado di libertà concesso dal giudice. Si può iniziare con la permanenza in comunità e passare gradualmente all’inserimento in un appartamento controllato oppure cominciare direttamente dalla casa».

Per quanto tempo?

«Dipende dal reato contestato: il periodo di prova varia da sei mesi a tre anni».

Bastano?

«Non sempre. I tempi della giustizia non sono quelli del reinserimento sociale. Per questo Arimo accompagna i ragazzi anche in una fase successiva al procedimento penale».

Qual è la percentuale di successo?

«Non ci si può affidare ai numeri. A volte dietro una condanna c’è un percorso di reinserimento nella società positivo. Alcune sentenze con sospensione della pena e non menzione in caso di mancata recidiva non sono fallimenti, sono ulteriori allungamenti dei periodi di prova».

Perché si entra nelle bande?

«È un fenomeno complesso. Spesso si tratta di una reazione a un processo migratorio vissuto a “strappi”: la madre lascia la famiglia in Sudamerica e arriva in Italia per motivi di lavoro. La figura del padre è assente. Quando i figli vengono portati in Italia, cercano ambienti dove ritrovano un clima conosciuto. La banda restituisce identità: il capo adulto colma l’assenza della figura maschile».

Come si arriva alla violenza?

«La delinquenza non è il fine: ciò che dà identità è essere una banda contro l’altra e lottare per la conquista del territorio. La delinquenza è finalizzata solo a rafforzare la banda. Spesso le azioni criminali sono dovute a perdite di controllo provocate dall’alcol. Ma parlare di dipendenza è sbagliato».

Perché?

«I latinos assumono grandi quantità di alcol non in modo costante. Hanno eccessi ancorati a feste e weekend».

(2 - fine)

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