Delitto Macchi, isolato il Dna di un «ignoto 1» sulla lettera scritta a Lidia

Varese, l’autore del testo potrebbe essere l’assassino della studentessa uccisa nel 1987 con ventinove coltellate

Lidia Macchi, uccisa a 21 anni nel 1987 da un killer rimasto finora misterioso

Lidia Macchi, uccisa a 21 anni nel 1987 da un killer rimasto finora misterioso

Varese, 16 maggio 2015 - Una lettera scritta con una calligrafia quasi infantile, in cui era riportata una sorta di poesia dai contenuti malinconici e misticheggianti intitolata «In morte di un’amica». È questo, da sempre, uno dei reperti più misteriosi del caso di Lidia Macchi, la studentessa varesina uccisa a 21 anni nel gennaio 1987 con 29 coltellate. Ora la procura generale di Milano, titolare dell’indagine dopo l’avocazione del fascicolo da Varese, ha in mano un profilo genetico maschile, con grande probabilità quello dell’autore del testo.

Sarebbe questo, al momento, il risultato principale degli accertamenti scientifici svolti sui reperti residui del terribile omicidio dai superconsulenti dei magistrati meneghini, il professor Carlo Previderè dell’università di Pavia e il biologo Roberto Giuffrida, responsabile del gabinetto regionale di polizia scientifica di Milano. Il Dna individuato sulla busta che fu recapitata ai genitori della giovane il giorno del funerale potrà essere utile nella ricerca di un assassino rimasto nell’oscurità per 28 anni anche se, va detto, non è assolutamente certo che la persona che ha vergato i confusi pensieri sulla morte di Lidia, firmati con uno strano simbolo cerchiato, sia l’autore del delitto.

D'altra parte la strada di cercare eventuali corrispondenze con il Dna isolato sulla carta, va percorsa. Lo sperano, in primis, i familiari di Lidia da sempre sostenitori della tesi che l’anonimo estensore di quell’enigmatico messaggio fosse il killer o, almeno, qualcuno che fosse a conoscenze di particolari importanti sul delitto. Nel mix di suggestioni letterarie e vaniloqui a sfondo mistico, infatti, l’autore disseminò i suoi «versi» con dettagli che quasi sicuramente solo l’omicida - o una persona che l’avesse assistito o si fosse confidata con lui - avrebbe potuto conoscere.

In particolare suscitano impressione le parole «il corpo offeso, velo di tempio strappato giace», possibile riferimento alla verginità che fu «strappata» a Lidia prima dell’assassinio. L’identificazione di un profilo genetico certo - che potrà essere completata da eventuali ritrovamenti analoghi sul francobollo utilizzato per affrancare la busta - è solo un primo tassello. Gli specialisti «arruolati» dalla procura generale di Milano - il fascicolo è in capo al sostituto pg Carmen Manfredda - sono chiamati a dare un nome all’«ignoto 1» del caso Lidia Macchi. Per farlo dovranno, prima di tutto, effettuare una comparazione fra i dati biologici rintracciati sulla missiva e quelli che vennero prelevati all’epoca delle indagini, quando la scienza applicata alle investigazioni era ancora ben lontana da ottenere i risultati attuali.

La possibilità è che i campioni allora esaminati, che vennero infine trasferiti a un laboratorio inglese, siano compromessi. In questo caso la procura generare potrebbe disporre nuovi test. L’unica certezza - per ora - è che il Dna individuato non è compatibile con quello di Giuseppe Piccolomo, il «killer delle mani mozzate» che, secondo la procura generale, è da sospettare anche per l’assassinio di Lidia. Notizia che non stupisce, anche perché nessuno ha mai pensato che l’assassino di Carla Molinari fosse l’autore di quella lettera. Gli indizi - o presunti tali - per cui i magistrati milanesi si apprestano a chiedere il rinvio a giudizio di Piccolomo sono altri: i ricordi delle figlie che testimoniarono di quando il padre disse loro di aver ammazzato la giovane studentessa e la somiglianza dell’ex imbianchino con l’identikit del molestatore dell’ospedale di Cittiglio, la zona dove fu vista per l’ultima volta viva Lidia.