GABRIELE MORONI
Cronaca

Stefano Binda, ingiusta detenzione. Scontro in Appello sul risarcimento

Omicidio Macchi, tre anni in carcere poi assolto in via definitiva. La Corte si riserva .

Stefano Binda, ingiusta detenzione. Scontro in Appello sul risarcimento

"Se Ionesco fosse vivo, avrebbe scritto un pezzo di teatro su questo processo". L’avvocato Patrizia Esposito (difensore di Stefano Binda con il collega Sergio Martelli) evoca la figura di uno dei padri del "teatro dell’assurdo". La quinta sezione penale della Corte d’appello di Milano è chiamata a pronunciarsi nuovamente sul risarcimento a Binda, detenuto da innocente, pienamente e definitivamente assolto per non avere commesso il fatto per l’omicidio di Lidia Macchi. Nel mese di ottobre del 2022 la stessa sezione dell’Appello aveva accolto l’istanza di risarcimento per ingiusta detenzione avanzata da Binda, riconoscendogli un indennizzo di 303.277,38 euro per i 1.286 giorni di carcere, gravato dall’accusa terribile (poi risultata infondata) di essere il predatore assassino della studentessa di Varese, trucidata con ventinove coltellate la sera del 5 gennaio 1987, nella zona di Cittiglio.

Ma nel giugno del 2023 la quarta sezione della Cassazione aveva ritenuto fondato il ricorso presentato dal sostituto procuratore generale di Milano Laura Gay e disposto l’annullamento con rinvio alla stessa sezione della Corte d’appello della metropoli lombarda.

Secondo la Suprema Corte i giudici milanesi sarebbero incorsi in un errore quando avevano accolto la richiesta risarcitoria di Binda in quanto non avrebbero risposto in modo adeguato a un quesito considerato basilare in casi come questo: c’erano o meno i presupposti perché il giudice delle indagini preliminari del tribunale di Varese, Anna Giorgetti, emettesse l’ordinanza di custodia cautelare che portò Stefano Binda in carcere? Non si trattava di entrare nel merito del giudizio di assoluzione, ormai cristallizzato dopo il terzo grado, ma di riconsiderare se l’atteggiamento di Binda (che in alcune occasioni si era avvalso della facoltà di non rispondere, peraltro un diritto garantito dalla norma) poteva essere un elemento su cui fondare (e poi mantenere) la misura di custodia cautelare. Nell’udienza di ieri il legale del 56enne di Brebbia ha sostenuto come non vi fosse alcun elemento "attuale" su cui fondare l’ordinanza di custodia cautelare, niente che sostenesse i presupposti dell’inquinamento probatorio, del pericolo di fuga, della reiterazione del reato.

Il sostituto pg Gay si è rifatta al suo ricorso in Cassazione. Il collegio, presieduto da Roberto Arnaldi, si è riservato la decisione.