Caso Macchi, la verità del prete amico di Binda: "Non coprirei mai un assassino"

Don Sotgiu e l’accusa di reticenza: "Stefano non ha ucciso Lidia" di GABRIELE MORONI

Don Giuseppe Sotgiu

Don Giuseppe Sotgiu

Amici fin dall’infanzia, a Brebbia. Inseparabili negli anni a seguire. L’ombra (che don Giuseppe Sotgiu ha sempre respinto) di avere coperto l’alibi di Stefano Binda per la sera della morte di Lidia Macchi. Sotgiu dichiarò di essere stato in giro con Piergiorgio Bertoldi (allora seminarista diocesano e oggi nunzio apostolico in Burkina Faso) e di avere concluso la serata, con anche Stefano Binda, in un cinema dove veniva proiettato «Il colore viola» o forse un horror con un titolo in inglese. Qualche giorno dopo ricordò di avere trascorso la sera in casa di Bertoldi. Dalla ricostruzione della serata era sparito Stefano Binda che dichiarò invece di avere passato qualche giorno di vacanza a Pragelato, con i ragazzi della Gioventù Studentesca.

Varese, 3 aprile 2016 - «Ai genitori di Lidia Macchi voglio dire che non coprirei mai un assassino. Tantomeno l’assassino di Lidia, Ma questo assassino non è Stefano Binda. Ne sono convinto». Si avvia lentamente, prima che inizi a scorrere, il dialogo con don Giuseppe Sotgiu. Un tempo l’amico del cuore di Stefano Binda, 48 anni, in carcere dal 15 gennaio con l’accusa di essere l’assassino di Lidia Macchi, la studentessa di Varese, militante come Binda di Comunione e Liberazione, trucidata con ventinove coltellate. Era la sera del 5 gennaio 1987. Il corpo venne ritrovato due giorni dopo alla località Sass Pinì, nel territorio di Cittiglio. Don Giuseppe Sotgiu vive a Torino.

Don Sotgiu, perché all’epoca cambiò versione su quello che voi amici faceste in quella serata?

«Io, Binda e Bertoldi eravamo sempre insieme. La mia era una ipotesi, sulla base di quello che si faceva di solito».

E si ritrovò nel registro degli indagati.

«Mi arrivò una comunicazione giudiziaria. Penso che fosse finalizzata alla perquisizione. Il test del dna venne in seguito».

Lo scorso febbraio, dopo che è stato ascoltato con altri, il gip di Varese ha trasmesso gli atti alla Procura perché procedesse nei suoi confronti per reticenza.

«Mi ha lasciato esterrefatto. Non mi sembrava di essere reticente. Ho detto tutto quello che ricordavo. Ventinove anni fa, già un mese dopo l’omicidio di Lidia, facevo fatica a ricordare cosa avevo fatto».

Adesso è indagato?

«Non mi è stato notificato nulla».

Don Sotgiu, cosa vorrebbe dire ai genitori di Lidia Macchi?

«È un po’ di tempo che non li vedo. So che il papà non sta bene. Immagino che Paola, la mamma, sia molto turbata da questa vicenda, adesso anche per via della esumazione della figlia. Certo non mi metterei mai a coprire un assassino. Tantomeno l’assassino di Lidia».

Neppure se si trattasse di Stefano Binda, il suo grande amico di un tempo?

«Non credo che Stefano sia il responsabile. Perché avrebbe dovuto? Aveva diciannove anni, faceva l’ultimo anno di liceo classico. Me ne sarei accorto».

Gli inquirenti rovesciano il ragionamento.

«Partono dal presupposto che Stefano sia colpevole e che io, data la nostra amicizia, la nostra frequentazione, me ne sarei dovuto accorgere. Sono deduzioni. Indizi molto labili. Forzature. Lo dico anche se, ovviamente, non ho in mano le carte dell’indagine. Con Stefano ci conosciamo fin da piccoli. Poi ci siamo allontanati. Non so neanche in che termini abbia preso quella strada (la droga - Ndr). Sono vent’anni che faccio il prete a Torino. Penso che si doveva essere un po’ più cauti con i media, vista la posizione così delicata».

Oggi che cosa si augura?

«Che tutto questo finisca presto, anche per Binda. Che si trovi il colpevole, non un colpevole. Che si arrivi alla verità, unica, oggettiva. Noi siamo religiosi, sappiamo che la verità ci sarà comunque. Ma è importante, è necessaria, anche ‘questa’ verità».