REDAZIONE VARESE

La caccia al complice di Binda: raccolti campioni di dna degli amici

“In morte di un’amica”, la poesia di Pavese altro elemento contro il sospettato di GABRIELE MORONI

Stefano Binda

Varese, 21 gennaio 2016 - Gli inquirenti non hanno dubbi: chi ha sigillato la busta che conteneva il brano “In morte di un’amica” è il complice dell’assassino di Lidia Macchi. È il complice dell’uomo in carcere, Stefano Binda, amico di Lidia, suo compagno al liceo classico di Varese e sodale in Comunione e Liberazione. Sulla linguetta della busta, recapitata in casa Macchi il giorno dei funerali di Lidia, il 9 gennaio 1987, è rimasto un dna maschile, nitido, perfettamente leggibile a distanza di quasi trent’anni. Lo stanno cercando. Vengono raccolti campioni salivari nella cerchia di amici che Lidia e Binda condividevano per poi ricavare i dna.

Nell’inchiesta potrebbe entrare un altro episodio, anche questo lontano nel tempo. Quando, negli anni ‘80, morì il padre dell’arrestato, un operaio edile, i carabinieri entrarono nella villetta di via Cadorna a Brebbia per degli accertamenti. Si indagò su quella morte, poi si chiuse tutto. Adesso il fascicolo potrebbe venire cercato dalla Procura generale.

La consulenza calligrafica è inequivocabile: quel brano di prosa poetica, a tratti onirico e surreale, a tratti crudamente realistico, è uscito dalla mano di Stefano Binda. Non solo. Sono agli atti, raccolti in un unico foglio, il testo di “In morte di un’amica” e di “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, la poesia di Cesare Pavese su tutte prediletta di Binda: la somiglianza delle grafie appare evidente. Alcuni particolari contenuti in “In morte di un’amica”, come l’ora notturna dell’omicidio e la deflorazione patita dalla vittima (“il corpo offeso, velo di tempio strappato”), potevano essere conosciuti solo dal massacratore di Lidia. Quindi, da Stefano Binda.

Si indaga anche su un’altra lettera, anch’essa anonima, giunta in casa Macchi a circa un mese dopo l’altra. La firma era “Una mamma che soffre”. Chi scriveva sosteneva di avere effettuato una esperimento di scrittura automatica, facendosi guidare dallo spirito della studentessa assassinata. Scrive sotto dettatura: “Chi mi ha ucciso è uno di quelli che mi hanno ritrovata”. Era stata una delle squadre organizzate dagli studenti amici di Lidia a organizzare battute di ricerca della ragazza scomparsa. Tre di loro, la mattina 7 gennaio dell’87, avevano ritrovato la Panda di Lidia ferma in una stradina sterrata, alla località Sass Pinin, nel territorio di Cittiglio. La lettera era opera di una mitomane o rappresentava un tentativo di depistaggio? Dalla busta è uscito il codice genetico di una donna, che è stato comparato con quello della madre di Binda. L’esito è stato negativo.

Se non arriverà la confessione, se l’inchiesta non scoverà una improbabile “pistola fumante”, il corpo di Lidia Macchi verrà esumato alla ricerca di tracce dell’uomo accusato di essere il suo assassino. "Se Binda non confesserà - dice il sostituto pg Carmen Manfredda, titolare dell’inchiesta - farò la riesumazione. La famiglia l’ha chiesta. La considero l’ultima spiaggia. Se ci sarà una possibilità anche infinitesimale, non potrò evitare di farlo. Un giorno non dovremo rimproverarci di non avere fatto tutto".