Caso Lidia Macchi, Binda chiede risarcimento: "Lo Stato riconosca il suo errore"

L'uomo riconosciuto non colpevole dell'omicidio della studentessa nel 1987 chiede 350mila euro per l'ingiusta detenzione. I giudici si sono riservati di decidere

Stefano Binda

Stefano Binda

Varese - "Lo Stato deve riconoscere di aver sbagliato, qua non è solo in discussione il risarcimento per i danni che ho subito, anche economici, ma l'ammissione dell'errore nei miei confronti". Così Stefano Binda, il 53enne assolto nel gennaio 2021 in via definitiva dall'accusa di avere ucciso la studentessa Lidia Macchi, con 29 coltellate in un bosco a Cittiglio nel 1987, parlando ai cronisti. Binda aveva  passato 3 anni e mezzo in carcere, tra il 2016 e il 2019, e  ha chiesto un risarcimento di oltre 350mila euro per l'ingiusta detenzione patita, istanza discussa oggi davanti alla Corte d'Appello di Milano.

La Procura generale di Milano e l'Avvocatura dello Stato si sono opposte alla richiesta, tocca ai giudici della quinta sezione penale d'appello (presidente del collegio Antonio Nova) decidere, dopo che stamani si sono riservati.

Quando Lidia Macchi venne uccisa, Binda "non era a Varese", ha ribadito in aula l'avvocato Patrizia Esposito, legale del 53enne assieme al collega Sergio Martelli, e la sua testimonianza "è stata riconosciuta e mai smentita". E ancora: "Si è sottoposto subito all'esame del dna e ha sempre detto che quella lettera anonima, presunta prova regina nel processo, non l'aveva scritta lui". Da qui l'assoluzione del 2021.

Tuttavia Procura generale e Avvocatura dello Stato nell'opporsi hanno richiamato "la storia dei presunti sei alibi diversi" di Binda e le parole di una teste che disse di aver visto la sua auto.

Binda era stato arrestato, per il mai risolto cold case del 1987,  nel gennaio 2016 e condannato all'ergastolo a Varese il 24 aprile 2018, ma la Corte milanese il 24 luglio 2019 aveva ribaltato le conclusioni e l'aveva assolto, scarcerandolo. La sentenza ha ritenuto non dimostrato l'assioma per il quale la poesia 'In morte di un'amica', spedita il giorno del funerale alla famiglia e considerata dall'accusa la "prova regina", fosse stata scritta dall'assassino, tantomeno che l'avesse scritta Binda.