
La bandiera del club ripercorre gioie e dolori vissuti da giocatore e dirigente "Ammazzati dalla Bosman, ma spero che Librizzi segua le orme dei più grandi".
Era l’1 agosto 1945 quando nacque la Pallacanestro Varese. Semplicemente, la squadra italiana che ha conquistato più Coppe dei Campioni, cinque, sommate a dieci Scudetti, 4 Coppe Italia, una Supercoppa, 2 Coppe delle Coppe, 3 Coppe Intercontinentali. Ottant’anni dopo, il sorriso è lo stesso. Da metà anni ’90 sempre in Serie A, una militanza su cui pochi possono contare. Di questa epopea, il simbolo è Antonio Bulgheroni, per tutti Toto. Membro dal 2014 della Italia Basketball Hall of Fame (come la Grande Ignis), dal 1958 giocatore biancorosso, quindi dirigente. Nessuno più di questo Cavaliere del lavoro può aprirci le porte di una storia infinita: "Inevitabile, la conosco tutta".
Ottant’anni dopo cos’è la Pallacanestro Varese?
"Un patrimonio della società, dei tifosi, di tutti quelli che l’hanno amata, che la seguono e la vivono giorno per giorno. Io ho avuto l’onore di viverla in ogni aspetto, di sentirla".
Dalle Coppe dei Campioni degli anni ’70 alle salvezze di oggi. È cambiato tanto.
"Quello che ci ha “ammazzato“ è stata la legge Bosman. Non c’è più stata la possibilità di valorizzare i giocatori, il patrimonio che ci crescevamo in casa. Avendo dei budget risicati non è facile costruire squadre vincenti. È come giocare a poker a rilancio libero, chi ha più soldi ha più chance di vincere...".
Eppure, a parte qualche occasione, la massima serie è stata sempre confermata brillantemente.
"La grande soddisfazione è avere persone serie che ci sostengono. Nessuno ha mai fatto passi nel buio, nessuno ha fatto voli pindarici, i bilanci sono sempre stati chiusi nel modo giusto. Ora la speranza è coinvolgere sempre più persone".
Si dice che la grande svolta fu la costruzione del Palazzetto di Masnago nel 1961.
"Un’opera portata avanti dal sindaco Oldrini e dalla famiglia Borghi. Una proprietà che decise di investire e un primo cittadino con una visione. Non a caso il palasport è ancora di proprietà del Comune".
Nella baraonda di immagini che affolleranno la sua mente, qual è la più luminosa?
"Troppo facile, la conquista del decimo Scudetto del 1999, la Stella. È stata la prima volta che abbiamo toccato con mano l’entusiasmo di tutta Varese. C’era la città riversa nelle strade, questo significa rappresentare una comunità".
E da giocatore?
"Anche qui, nessun dubbio. La stagione 1969-’70, l’anno che abbiamo vinto Scudetto, Coppa Italia e Coppa dei Campioni".
Una sola volta ha lasciato Varese, a metà anni ‘60. Perchè?
"Mio padre era diventato presidente della società su richiesta della proprietà. Volevo venir giudicato per quello che facevo in campo, non per essere il figlio del numero uno del club".
Dai trionfi ai protagonisti. Partiamo dai giocatori...
"Ogni epoca ha avuto i suoi riferimenti. Sicuramente Zorzi e Nesti per cominciare, poi Ossola, Dino Meneghin, che non lo dimentichiamo ha iniziato qui. E anche il figlio Andrea e Pozzecco in un secondo tempo. Speriamo che questa tradizione possa continuare con Librizzi e Assui".
Quindi gli allenatori.
"Garbosi, Tracuzzi, Aza Nikolic e Sandro Gamba. Da qui passano i migliori. Poi ovvio, non sempre questo è praticabile, ma mi auguro che Kastritis si possa aggiungere alla lista"..
Piccolo gossip. A metà anni ‘90 uscì una notizia: fusione tra Olimpia Milano e Pallacanestro Varese. Possibile?
"Secondo me una grande bufala. Storicamente le grandi pietre miliari della pallacanestro italiana sono Milano, Cantù, Pesaro, Trieste, Bologna e Varese. Una sana e grande rivalità, non credo fosse possibile".
Ecco, rivalità. Di più con Cantù o con Milano?
"Personalmente ho giocato nell’altra Milano, la fu Onestà, quindi la rivale è l’Olimpia. Me per i tifosi si è affermata quella con Cantù. È legata anche agli anni dell’Hockey su ghiaccio".
Ora il socio di riferimento é Luis Scola dopo anni di Consorzio. Un passo in avanti?
"Il Consorzio è un’entità importante che ha salvato il club e lo ha portato avanti, come detto senza mai retrocedere. Scola ora lo tiene in grande considerazione, sposa la tradizione cercando, a piccoli passi, di tornare in alto".
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