
Sciatt à Porter di Emma Marveggio (Orlandi)
Sondrio, 6 ottobre 2017 - Visionario lui, il «rospo», che si presenta come una bolla di formaggio casera rivestito da grano saraceno e baciato da una gentile ospite gourmet si trasforma in principe. Visionario il locale, tre passi da corso Como e due passi dai grattacieli di Porta Nuova, in una Milano che ha sdoganato la vanità come peccato perdonabilissimo. E visionaria anche lei, Emma Marveggio, infanzia e adolescenza a Sondrio, poi il via-vai con Milano tra commercialisti e una redazione giornalistica («Abitare»), una società immobiliare e il mondo del risparmio gestito, prima di convincersi che il più grande investimento è quello da fare sulla realtà che si conosce meglio: la terra da cui si proviene.
Detto e fatto: il suo gioiello al 18 di viale Monte Grappa l’ha chiamato "Sciatt à Porter", sposando la parlata delle sue montagne con l’elegante francese, che è come chiedere ai famosi «rospi» di sfilare in passerella e diventare materia di costume. Sono passati già 4 anni. E in mezzo, il successo di questa sondriese che il Gambero Rosso appena 6 mesi dopo aveva salutato come l’ideatrice del migliore «Street Food» della Lombardia, con tanto di motivazione: avere creato un ristorante che in realtà non è tale, ma piuttosto un «rifugio metropolitano», una sorta di tana dove a contare sono le degustazioni, ma anche la storia e le storie che certi ingredienti sanno rivelare quando arrivano sul bancone del locale. Ricetta semplice ma intrigante. Come quella dei pizzoccheri che in viale Monte Grappa vengono fatti a mano con grano saraceno di Teglio e farina bianca, verze, patate, aglio filtrato e burro di filiera di latte crudo. O come quella degli Sciatt, ispirati alla mitica signora Cicci del «Cerere» di Ponte o al signor Silvano di San Bernardo, anch’essi rigorosamente maison, con grano saraceno, acqua Levissima e casera della Latteria di Chiuro. Parlandole, s’intuisce che sta pensando ad altre cose da fare, seguendo il filone che gli altri chiamano «street food» e lei definisce cibo da passeggio, come quello che sta dentro nel suo cono di carta-paglia colmo di «sciatt», con cicorino e un fiore di campo.
Come dire, lavoro tosto, perché i rifornimenti di materie prime sono continui: la bresaola «Originaria» di Mottolini, il prosciutto crudo «Masa» di Lanzada, le marmellate Erini di Ponte Valtellina, lo «Storico Ribelle» della Val Gerola e poi i vini Ar.Pe.Pe e Boffalora, Cantine Mozzi, Mamete Prevostini, Rivetti, la polenta di Colorina, le trote salmonate di Luciano Ciapponi e la torta di saraceno e frutti di bosco di Caterina. Dalla sua valle arriva anche l’energia, cordone ombelicale con il luogo dove è cresciuta. Ricorda Sondrio: via Caimi dove è nata e il Sentiero Valtellina dove amava andare a correre. Cita i suoi locali preferiti, all’Aprica (Le Lische) e a Teglio (Ai Tigli), a Chiesa (Totò) e nel capoluogo (Trippi). E si commuove quando parla di sua figlia Laura e di Theo e dell’adorata nipotina Carolina che le hanno dato; ma anche della sua Valtellina, sempre lì in un angolino del cuore. Non è nostalgia. Piuttosto, senso di appartenenza: le radici sono lì e ci restano.