Maietti
A Milano ci ritroviamo
per un boccone con un paio di antichi amici. Siamo anche vecchi, come no, ma antichi suona meglio.
E subito la mente va ad antiche
memorie. Amici siamo diventati all’università commerciale Bocconi, negli anni Sessanta, periodo effervescente nella storia italiana ed europea,
alla facoltà di Lingue e Letterature Straniere. Luciano veniva da Sesto San Giovanni, allora una città fortemente rossa, la Stalingrado d’Italia
com’era soprannominata,
e Luciano ne portava stimmate convinte. Fernando era di sobria borghesia milanese. Io venivo dalla irsuta povertà di Costaverde e sentivo più vicino Luciano. Tutti e tre, dopo
la laurea, insegnanti liceali, convinti che il mestiere
di professore alle superiori
paga poco, ma regala molto. Ripariamo alla tavola calda della Rinascente, da dove si possono quasi toccare le guglie del duomo. Appena ci accorgiamo di indulgere ai ricordi, viriamo sul presente. Ognuno accenna a come si cerchi di far gimkana tra gli anni e la salute. Ma si continua a vivere: Luciano fa scuola agli immigrati; Fernando si occupa, come me, di uno stuolo di nipoti. Inevitabilmente si accenna al Dopo.
"Mi aggrappo alla Fede", dice Fernando. "Io mi chiedo – dice Luciano - quale sia il senso di tante sofferenze: le guerre, il mare che ingoia disperati, i bambini che si ammalano di tumore". Si è fatto tardi. Mi aspetta il treno a Rogoredo. All’imbocco del corridoio che porta ai binari una vocina alle spalle: "Scusi": una ragazzina pallida pallida, potrebbe avere l’età di mia nipote Angelina. Vorrà un soldino, e allora affretto il passo per togliermela di torno. All’imbocco della scala che porta al marciapiede per Lodi: se fosse mia nipote – penso – in questa stazione di Milano piena di freddo, nebbia e indifferenza. Mi volto per tornare indietro. In quella l’altoparlante annuncia l’arrivo del mio treno. Mi accorgo di non avere abbastanza cuore per perderlo.