Dall'illusione di Veltroni alla sconfitta di Renzi, Pd senza pace

Quella del Partito Democratico non è mai stata una storia tranquilla, e per ragioni interne molto più che a causa degli avversari

Manifestazione Pd in piazza Duomo

Manifestazione Pd in piazza Duomo

Milano, 5 marzo 2017 - Quella del Partito Democratico non è mai stata una storia tranquilla, e per ragioni interne molto più che a causa degli avversari. Lo sa bene Walter Veltroni, illuso che il Pd avrebbe fatto sintesi dell’esperienza dell’Ulivo e trasformato quella carovana di partiti e gruppi in un soggetto unitario. Con Veltroni l’impronta di sinistra scompariva dal nome – Pd e non più Pds –, l’adesione al socialismo europeo tramutava in associazione e il modello diventava il partito democratico americano, di cui assumeva la vocazione maggioritaria oltre i vecchi confini socialisti, di sinistra e classisti.

La novità era così forte e ricca di promesse che il 34 per cento dei voti conquistato nelle elezioni del 2008, per quanto surclassato dalla strabordante vittoria di Berlusconi, fu salutato come un successo. La sconfitta Veltroni l’attribuì all’eredità della litigiosa alleanza guidata da Prodi, gli altri alla sua vocazione maggioritaria. Così, subito, si aprì una fase di dispute e divisioni così aspra da portare all’amaro abbandono della segreteria da parte di Veltroni.

Seguirono l’interregno del suo vice, Dario Franceschini, quindi un congresso e la lunga segreteria di Bersani. Ricordo i versi della canzone di Vasco Rossi, «Voglio dare un senso a questa storia» con cui Bersani tappezzò i muri d’Italia. Ricordo anche una strada di Milano: su quei manifesti qualcuno, a pennarello, aveva aggiunto, «Anche se questa storia un senso non ce l’ha». Ma qual era il senso di Bersani? Alle sue primarie “aperte” il segretario fece partecipare anche Vendola e Tabacci e con ciò archiviò la vocazione maggioritaria di Veltroni e riesumò l’ulivo.

A sfidarlo c’era un giovanissimo Renzi che perse ma solo perché Bersani al ballottaggio ricevette in dote il 15 per cento di Vendola. Con la stessa formula in Puglia Vendola aveva già vinto e a Milano, alle primarie per il candidato sindaco, Giuliano Pisapia sbaragliò quelli del Pd.

Lo stesso accadde a Genova con Rossi Doria e in altro modo a Napoli con De Magistris. Con la vittoria dimezzata del 2013 Bersani assicurò al Pd – grazie al mostruoso premio del Porcellum – una larga maggioranza alla Camera. Carente di voti al Senato e dimentico che in politica come in amor “vince chi fugge”, si mise a inseguire un vano accordo con Grillo scambiato per una costola anarchica della sinistra. Ma il peggio arrivò con l’impallinamento dei candidati Pd al Quirinale, prima Marini e poi lo stesso Prodi. La paralisi portò alla rielezione di Napolitano e poi alle larghe intese di Letta con il Pdl. Ma il Pd non trovò pace. Defenestrato l’alleato Berlusconi dal Senato, cominciò a segare il ramo su cui era seduto.

A sua volta Renzi, vinte le primarie, rilanciò la vocazione maggioritaria e per cominciare segò Letta ed escluse Berlusconi da un accordo sul Quirinale inimicandoselo. Poi, malgrado meriti e successi, con l’indigeribile riforma costituzionale e l’ancor più indigesta legge elettorale corse al referendum. In più la stessa ricetta Renzi l’applicò anche al Pd rottamando i vecchi e le minoranze. Così, il 4 dicembre, la marcia trionfale ha cambiato ritmo, è diventata un de profundis. Ma ancora non basta. Renzi azzoppato vuol riprendersi il partito ma ottiene solo di lacerarlo. A loro volta le minoranze appena il segretario è sfiorato da indagini che coinvolgono il padre e l’amico più stretto si fanno spietate con attacchi più velenosi di quelli degli altri partiti.

Conclusione: fallito il campo progressista, fallita la vocazione maggioritaria, malgrado da quasi cinque anni governi gran parte d’Italia, il Pd, in attesa di una legge proporzionale che esigerebbe il massimo d’identità e di unità, non è mai stato così correntizio, così incerto sull’oggi e così in ansia sul proprio domani.