Storie di Brianza - Quando Verdi doveva dirigere in Duomo a Monza

Vinse un bando ma a Busseto ci fu una rivolta popolare per trattenerlo

Un giovane Giuseppe Verdi

Un giovane Giuseppe Verdi

Monza, 7 aprile 2019 - Sarebbe bello anche solo immaginare la scena. Il Duomo di Monza gremito in ogni ordine di posto, i rintocchi dalla torre del campanile, i chierichetti pronti a far tintinnare le campanelle, l’arciprete che si appresta a salmodiare una preghiera e a incominciare la messa.

E la musica che si innalza dalla Cappella della Basilica di San Giovanni. A dirigere un ragazzo di poco più di vent’anni. Dai suoi gesti si effonde una musica destinata a scolpirsi nei cuori. Perché quel giovane direttore, anche se al momento il suo nome probabilmente diceva poco o nulla, era destinato a entrare nella storia come uno dei più grandi compositori mai esistiti: Giuseppe Verdi.

Forse la sua storia sarebbe stata, almeno parzialmente, diversa. Di certo quella della città di Monza sarebbe cambiata. La vicenda emerge dagli archivi storici del Duomo di Monza e dal fitto epistolario del compositore di Busseto, del futuro autore di opere liriche destinate a rimanere nella storia della musica mondiale come il Nabucco, il Rigoletto, l’Aida o La Traviata. Tutto inizia il 4 giugno del 1834, quando il Duomo di Monza pubblica un bando per trovare un nuovo maestro di cappella e di canto che sia insieme anche organista.

L’offerta si prospetta molto vantaggiosa e prevede uno stipendio di 2.200 lire milanesi annue, comprensive di spese di abitazione e “probabilmente per legna e lume”, oltre a 700 lire milanesi “ed anche più” dai padri barnabiti per l’insegnamento della musica nel loro Collegio d’Educazione. Oltre alla possibilità di ulteriori entrate per la presenza a Monza di altri collegi, così che “il soldo annuo sarebbe facilmente a L. 3000”. Il giovane Verdi fa i suoi conti: in pratica, tre volte più di quanto per lo stesso ruolo veniva offerto a Busseto, il paese dove era nato e viveva.

Verdi si fa ingolosire, tanto più che quel bando arriva in un momento particolare della sua vita. Nella sua terra natìa, infatti, nella “sua” Busseto, un analogo posto era stato appena affidatosenza concorso, su raccomandazione di un vescovo, a un forestiero (nel senso che veniva dalla pur vicina Guastalla). E che il Capitolo della Collegiata del suo paese avesse privilegiato ingiustamente uno “straniero”, fra l’altro a detta dello stesso Verdi di scarse capacità, aveva fatto letteralmente imbufalire il futuro compositore.

Ecco allora la lettera, conservata ancora nell’archivio storico del Museo e Tesoro del Duomo, vergata da Giuseppe Verdi: “Ill. ma e Veneranda Fabbriceria della Basilica Collegiata di S. Giovanni di Monza. Sapendo il sottoscritto che in codesta Basilica di S. Giovanni è vacante il posto di Maestro di Capella, osa ricorrere all’Ill. ma e Veneranda Fabbriceria supplicando la medesima ad ammetterlo a detto impiego, previi quelli esami che saranno necessarj, dichiarando e promettendo che egli, qualora fosse favorito dell’elezione adempirà con ogni premura, e col più indefesso zelo al suo dovere in modo che l’Ill. ma e Ven. da Fabbriceria ne resti pienamente soddisfatta, nè abbia mai il minimo motivo di dolersi di sua scelta”.

Dopo qualche formalità (e alla lettera Verdi acclude anche i documenti richiesti nel bando che attestino ad esempio fede di nascita e religione professata, fedina criminale e politica, certificato di condotta e d’abilitazione al titolo), la firma in calce: “Umil. mo Dev. mo ed Ob. Mo Servo Giuseppe Verdi”. Il giovane musicista, che si sta già facendo un nome e che vanta ottime referenze, ottiene l’agognato incarico senza troppa fatica.

A Monza, però, non metterà mai piede. Alla Basilica di San Giovanni lo attendono per mesi, mandano anche più di una sollecitazione e richiesta di spiegazioni. Sono sconcertati dal silenzio del loro nuovo Maestro di Cappella, il cui arrivo era previsto per i mesi fra novembre e dicembre. Non immaginano però che , alla notizia che Verdi era destinato a partire alla volta di Monza, nella sua Busseto si era scatenata una autentica rivolta popolare.

Ne farà cenno lui stesso in una lettera al suo Maestro, Vincenzo Lavigna, il 15 dicembre 1835. Nell’incipit della sua lettera, “Nuovi tormenti e nuovi tormentati”, Verdi arriva addirittura a citare Dante (Inferno, Canto VI) nel tentativo di districarsi da una situazione molto imbarazzante. Racconta di come quando fece richiesta di passaporto in vista della partenza per Milano, “nacque un sussurro da non immaginarsi”. Si formano addirittura due partiti, che arrivano a insultarsi e minacciarsi reciprocamente.

E a ingiuriare lo stesso Verdi. I Filarmonici offrono a Verdi di pagargli di tasca propria un sussidio di mille franchi annuali e, confida lui, ”indispettiti dal mio rifiuto, giunsero ad atterrirmi colle minaccie”. E addirittura “ad obbligarmi a restare in Busseto, qualora io fossi visto partire”. E gli fanno pesare addirittura di non essere riconoscente a chi gli aveva tempo prima assicurato “una tenue pensione” dal Monte di Pietà . Verdi si oppone alla logica che avrebbe dovuto “comperare il mio avvilimento, e la mia schiavitù”, ma alla fine si trova costretto a cedere e a restare a Busseto.

Sullo stesso argomento, tornerà anche in un’altra missiva, scritta il 24 gennaio 1836 a Pietro Massini, direttore della Società Filarmonica nel Teatro Filodrammatico di Milano, nella quale ribadisce le ragioni che lo hanno obbligato a restare. “Sono nate delle liti fortissime”. Liti che si tramutano in vere e proprie pressioni psicologiche nei confronti di Verdi, al quale come detto era stata fatta pesare fra le altre cose la pensione ottenuta dal Monte di Pietà. E probabilmente un ruolo non indifferente lo assume anche il fatto che tra i concittadini che premevano perché Verdi rimanesse a Busseto ci fosse anche il suo grande benefattore, Antonio Barezzi, che di fatto lo aveva già mantenuto a proprie spese Milano per perfezionare gli studi di musica.

Intanto, questo trambusto spinge il Comune di Busseto a indire finalmente un concorso per scegliere il Maestro. Stavolta le cose vengono fatte a regola d’arte, non c’è più raccomandazione vescovile che tenga e infatti il 5 marzo 1836 Verdi si aggiudica il posto di Maestro di Cappella. Monza, ormai, è solo un ricordo, anche se l'idea di venirci a suonare tornerà comunque a far capolino nell’epistolario di Verdi per un’ultima volta qualche tempo dopo. Insoddisfatto dell’impiego a Busseto, il 15 ottobre 1836 Verdi scrive infatti di nuovo all’amico Massini: “Sappi addumque che io sono stanco di stare in Busseto, perché tu sai che in un piccolo paese non ci sono risorse per chi fa professione di musica, non ci sono speranze di avanzamento, lontano dalla città, quindi tu vedi che io passo la mia più bella gioventù nel niente…”. Ecco allora la richiesta: “Io per questo attenderei di nuovo alla Capella di Monza, (benché per genio non sia inclinato alla musica di Chiesa). Tu devi favorirmi col farmi sapere se quel posto è ancora libero, e se havvi nessuno intoppo onde ottenerlo. Parmi che colà starei meglio che in Busseto perché paese vasto, e poi perché vicino alla Capitale…”.

Firmato, “il tuo Amico di Cuore ti abbraccia, G. Verdi”.

Troppo tardi, però. Il posto a Monza era stato assegnato appena due giorni prima a un altro musicista. E la vita di Giuseppe Verdi non si incrociò mai più con quella di Monza.