La bella ostessa che fu ammazzata dall'innamorato respinto

Il delitto a Camparada nel 1925. A Monza invece un femminicidio nel1949

Il delitto del 1925 a Camparada

Il delitto del 1925 a Camparada

Camparada (Monza e Brianza), 29 gennaio 2017 - Amore e morte. La passione in punta di fucile e rivoltella, per una tragica vicenda accaduta il 18 ottobre 1925. I protagonisti di questa storia sono tre: innanzitutto c’è lei, una piacente ragazza di 27 anni, Maria Beretta, che conduce assieme alla sorella Rosa un’osteria alla Cascina Valmora, frazione di Camparada. E poi ci sono i suoi due spasimanti.

Si chiamano Natale P., 23 anni, falegname, descritto come un ragazzo mite; e Giovanni T., 29 anni, calzolaio, di animo ben più rude, almeno secondo i testimoni dell’epoca. Attorno all’osteria della Cascina Valmora si ritrovano ogni sera decine di persone dopo una giornata di lavoro in bottega e nei campi, soprattutto considerato che nei dintorni – siamo in aperta campagna – non c’è altro.

E la bella ostessa non fatica a conquistarsi le simpatie degli avventori, un po’ per la sua gentilezza, un po’ per una certa avvenenza. Accade così che i due giovani si innamorano pazzamente di lei. E cominciano a corteggiarla. Sembrano animati davvero da sentimenti sinceri e la giovane ostessa si barcamena fra i due facendo intendere che potrebbe cedere prima o poi alle lusinghe dell’uno o dell’altro, e che entrambi possono nutrire concrete speranze di conquistarla. Beata fra i suoi cavalieri. Solo che sotto la cenere cova un fuoco che attende soltanto di potersi scatenare. E così avviene. Un giorno succede infatti che Maria acconsente all’ennesimo invito di Natale il falegname. E accetta di fare una romantica passeggiata a Monza a braccetto con lui.

Non fosse mai avvenuto. Giovanni il calzolaio si infiamma e, mosso da aspro risentimento nei confronti del suo rivale e soprattutto dell’oggetto dei suoi desideri, decide di affrontarla piuttosto bruscamente... si fa per dire. E le assesta uno schiaffo. Un gesto che ovviamente impaurisce Maria, ma che al contempo inaspettatamente sembra anche convincerla: la ragazza al mite falegname sembra preferire così il manesco calzolaio. Forse per timore, forse per il senso di “protezione” che il violento sembra poterle assicurare.

La reazione provocata nel mite (!) falegname a questa inaspettata giravolta è invece ancor più inattesa. O forse no. Succede così che il giovane respinto si presenti la domenica sera all’osteria. Armato. Prima di arrivare, si è infatti fatto dare un fucile dal fratello e si è pure procurato appositamente una rivoltella a Monza. Natale P. non nasconde le armi, anzi, le tiene in bella vista davanti alla donna. Che all’inizio naturalmente si spaventa, ma poi, vedendo il contegno calmo e tranquillo del suo spasimante deluso, si convince che abbia solo intenzione di incuterle soggezione con la sua spavalderia. Non sarà così.

La serata trascorre senza incidenti, ma in un clima quasi surreale. In mezzo al clamore degli avventori, e mentre il “fortunato” Giovanni T. nella stanza attigua beve e gioca spensierato, il calzolaio deluso rimane seduto al bancone davanti alla sua amata, che tenta di persuaderlo che ormai è tutto inutile e non ci sono speranze di farle cambiare idea. La sorella dell’ostessa non perde d’occhio il giovane, ma ne spia spaventata ogni movimento. Questa situazione dura quasi tre ore, fino alla mezzanotte, ora di chiusura del locale. Ormai gli avventori sono tutti usciti, restano soltanto i due rivali, come a preparare l’epilogo di una tragedia annunciata. Maria forse inizia davvero a preoccuparsi e tenta per un’ultima volta di convincere lo spasimante respinto ad andarsene. Natale P. però non proferisce parola. E per tutta risposta spiana all’improvviso il fucile contro la donna.

Maria, terrorizzata, cerca allora di fuggire e di trovare scampo giù per una scaletta che da una botola porta al sotterraneo dell’osteria. Non ne avrà il tempo. Il suo spasimante inferocito esplode infatti due colpi al suo indirizzo: la centra alla nuca “facendo scempio del suo cervello” - come ricordano le cronache dell’epoca – e facendola rotolare giù per le scale.

Agli spari accorrono urlando il Giovanni T. e un altro avventore che si trovava con lui, oltre alla sorella della povera vittima. Intanto però l’assassino è uscito e, ricaricato il fucile, lo punta verso di sé: riuscirà però soltanto a ferirsi di striscio a una guancia. Giovanni T. come una belva invece lo rincorre con una rivoltella spianata e come lo raggiunge lo colpisce alle reni. Il tragico episodio nella quiete della notte – ricorderanno le cronache – non ebbe testimoni. Colpito l’assassino della sua bella, Giovanni T. torna nell’osteria. Accorrono intanto i carabinieri di Arcore e il medico, ma ogni tentativo di salvare la vita della povera ragazza è ormai vano. La sua morte è stata fulminea. L’assassino invece - ricorda il Corriere di Monza - «ferito vagò per i campi finché, non potendo reggere, stramazzò presso la cascina dove fu rinvenuto al mattino successivo e trasportato all’ospedale di Vimercate». Morto? La logica direbbe di sì, ma le cronache dell’epoca non lo precisano.

 

DELITTO A MONZA

Accecato dalla gelosia, un giovane operaio ha ucciso domenica scorsa la sua fidanzata al quartiere Cederna. I giornali riassumono così la triste vicenda accaduta il 19 agosto 1949 a Monza. Perché i “femminicidi”, prima che questo termine diventasse tragicamente di moda, sono sempre avvenuti. Questo delitto avviene nel pomeriggio, nel cortile di un grosso edificio popolare. Qui vivono con le rispettive famiglie Amelio Gargantini, 22 anni, e la 18enne Enrica Ferrario, operaia. I due si amano e si sono anche fidanzati. Fino a quando a mettersi in mezzo è la famiglia della ragazza: che giudica entrambi troppo giovani per sposarsi. Quel pomeriggio, dopo le 14, la ragazza esce dalla chiesa dove ha seguito la lezione di dottrina e il suo fidanzato la attende per un incontro chiarificatore.

La ragazza gli ha chiesto la restituzione di alcune fotografie su suggerimento dei propri genitori e il giovane si serve di questo espediente per incontrare ancora una volta la sua ex. Insiste il ragazzo, ma la giovane non intende disobbedire e fa cenno di andarsene. Accade così che l’innamorato estrae una lama e colpisce la ragazza alla schiena con un fendente. La giovane riesce a fuggire sulla scala del palazzo, ma il ragazzo è scatenato e la raggiunge infierendo altre volte su di lei. Sei i fendenti. La giovane stramazza invocando la madre, che la raggiunge e la trova in una pozza di sangue mentre vede il suo assassino fuggire. La ragazza viene soccorsa, ma le fasi per salvarla sono tanto concitate quanto confuse. Visto che non c’è a portata un telefono con cui chiamare l’autolettiga, la giovane viene caricata su un motocarrozzino. Serve però qualcuno per guidarlo. Gli altri giovani accorsi sul posto si precipitano a chiedere aiuto al parroco, ma visto che questi è impegnato a dir messa si rivolgono al suo coadiutore, il quale a sua volta inforca una bicicletta con cui raggiunge il motocarrozzino con a bordo la giovane. Per la poveretta agonizzante però ormai non c’è più nulla da fare, tanto che all’arrivo del sacerdote è già spirata. Il gruppo di giovani del quartiere dà la caccia all’assassino nei campi attorno, senza però trovarlo.

Sarà lui stesso a ricomparire a sera inoltrata. Non osando però andare a dormire sotto lo stesso tetto con i suoi genitori, va a rifugiarsi in un canile, dove trascorrerà la notte singhiozzando e mormorando parole sconnesse.

Ak nattino, guidati dal padre, i carabinieri arriveranno ad arrestarlo. E dai primi interrogatori si scoprirà che il suo gesto omicida era premeditato: l’arma usata per uccidere la sua ex fidanzata se l’era infatti fabbricata da solo affilando un pezzo di telaio che aveva preso nello stabilimento di tessitura dove lavorava.