DARIO CRIPPA
Cronaca

Quel morto nascosto dal Regime, ecco la verità

Settantasette anni dopo raccontiamo come andò la rapina alla carrozza del Cappellificio Cambiaghi

Giuseppe e Angela Maria Cazzaniga

Monza, 18 dicembre 2016 - A volte i fatti di cronaca, specie in certi oscuri periodi storici, non vengono sempre raccontati secondo verità e giustizia. E per settantasette anni, c’è stata una piccola - tragica - storia di cronaca monzese che non è stata raccontata come era veramente andata. C’è una rapina a una carrozza che trasportava le paghe degli operai di una grande azienda manifatturiera, c’è un impiegato modello e fidato che prova a opporsi e i banditi che gli sparano un colpo, anzi no, ben due al volto. Le cronache dell’epoca, ovviamente di regime (siamo nel 1939), racconteranno ai lettori che alla fine andò tutto bene. L’impiegato modello si ristabilì come era giusto che fosse, i suoi padroni gliene furono grati. Tutto molto edificante. Eppure non andò a finire proprio così E chi meglio avrebbe potuto svelarlo dei suoi discendenti? Suo figlio, che all’epoca aveva solo due anni e sua sorella, che di anni invece ne aveva sei, e persino il nipote dell’altro impiegato che sedeva al suo fianco su quella maledetta carrozza, ci hanno raccontato ora la verità. E noi oggi - per quanto nelle nostre facoltà - andiamo a riparare a un vecchio torto.

I FATTI, 1939

«Il grave fatto di via Carlo Porta», titola il Cittadino. «Un audace colpo ladresco», chiosa invece il Popolo d’Italia. Un impiegato del Cappellificio Cambiaghi, Ferdinando Cazzaniga, quarantuno anni, va come d’abitudine a prelevare da alcune banche del centro città i soldi destinati alle paghe degli operai. Sulla sua strada e nel suo destino ci sono anche però due macchine di delinquenti che lo attendono al varco. Ferdinando Cazzaniga, impiegato di concetto e uomo di fiducia del Cappellificio, sale con i soldi su una vettura chiusa trainata da cavalli su cui lo attende come sempre un fattorino della sua stessa ditta, Carlo Meregalli. Percorse poche decine di metri, svoltato l’angolo con via Porta Lodi, una Fiat 1500 con a bordo tre uomini sbuca da un angolo e si affianca alla carrozza in via Carlo Porta, pieno centro storico. Poi la supera e frena di botto obbligando la carrozza a fermarsi. Intanto alle spalle dei due veicoli arriva anche un’altra macchina, un’Aprilia. Il cocchiere accenna a una protesta, ma le sue parole gli si smorzano in bocca davanti al revolver che gli sventola davanti uno dei banditi. Intanto dall'Aprilia scendono altri due banditi che vanno alle porte della carrozza e rivoltella in pugno provvedono con le minacce a farsi consegnare il denaro. Ferdinando Cazzaniga però non ci sta e prova a reagire, non vuole mollare la valigetta con dentro le ottantaduemila lire destinate alla paga che i suoi colleghi attendono sicuramente con ansia. Sarà la sua fine. Uno dei banditi gli spara due colpi di pistola: uno dei proiettili lo colpisce in faccia all’altezza dello zigomo sinistro, mentre i banditi ne approfittano per afferrare anche un’altra borsa in mano all’impiegato in cui sono custodite altre quindicimila lire. Per quanto riguarda il ferito, i giornali dell’epoca scriveranno che Ferdinando Cazzaniga, caduto riverso con una pallottola incastrata nel collo che gli immobilizza la mascella e gli impedisce di parlare, migliorerà in ospedale e guarirà miracolosamente. Non è così..

LA TESTIMONIANZA 77 ANNI DOPO

«Papà fu colpito da un proiettile e gli fu lesa l’aorta. Ai tempi non c’erano speranze per una ferita simile, e dopo due giorni di agonia morì. Era il il 4 febbraio. Ecco, la verità è questa». Angela Maria Cazzaniga, figlia maggiore dell’impiegato di concetto Ferdinando Cazzaniga, con questa manciata di parole riduce a carta straccia quanto avvenne davvero in quel tragico febbraio del 1939 dopo la rapina alla carrozza padronale del Cappellificio S.A.G. Cambiaghi. Angela all’epoca aveva solo sei anni, il fratellino diciotto mesi, e la vita della loro famiglia ne fu stravolta. Ragioni di opportunità politica diedero un’altra versione dei fatti, più edulcorata, in cui tutto andava a finire bene. Ma non andò così. Anche il fratello Giuseppe ricorda: «Vivevamo in una casa signorile in via Grazie Vecchie 26. Dopo che nostro padre morì, però, per noi cambiò tutto. Mia madre ne fu sconvolta. I Conti Cambiaghi, padroni del Cappellificio, pagarono il funerale e il posto al cimitero per nostro padre per quarant’anni, ma per il resto la nostra famiglia rimase a terra, da una vita borghese ci ritrovammo a terra.

Soltanto, quattro anni dopo, visto che non saremmo più riusciti a permetterci l’affitto della casa in cui abitavamo, ci trovarono un nuovo alloggio: in via Spalto Piodo 16, in quelle che allora erano le case riservate ai dipendenti del Cappellificio. Mia madre sperava che almeno quell’alloggio sarebbe stato gratuito, invece le toccò pure pagare l’affitto. No, per noi non fece niente nessuno. Anzi – ricorda il figlio – per la rabbia mia madre fece in mille pezzi la brochure che ci avevano dato con le immagini del funerale di nostro padre». Perché del fatto – come si diceva – all’epoca sui giornali non fu fatta menzione ufficialmente e nemmeno sulla tomba del cimitero fu riportata la data esatta del tragico evento, «ma si limitarono a scolpire solo l’anno della morte» precisa Giuseppe Cazzaniga. Eppure i funerali furono celebrati in pompa magna. «Fecero un corteo per tutto il centro, ricordo che sulle fotografie – dice ancora il figlio – si vedevano le ali di folla lungo via Vittorio Emanuele che accompagnavano la carrozza con la bara di nostro padre».

Ma sui giornali niente. Sul caso calò una coltre di silenzio. Solo, come dal nulla, a una decina di giorni dagli eventi, sul Popolo d’Italia comparve un necrologio. Grande, di misure quasi eccessive per un banale necrologio. Anche qui, venivano ricordati tutti gli alti papaveri che avevano partecipato alle esequie del povero Ferdinando Cazzaniga, ma senza far menzione delle drammatiche circostanze in cui aveva trovato la morte e che avrebbero giustificato un necrologio di tali dimensioni. «Nostra madre – ricordano i due fratelli Cazzaniga, rispettivamente classe 1932 e classe 1937 – dovette andare a lavorare, trovò posto per fortuna in Comune come impiegata: si chiamava Virginia Casiraghi, suo zio Alfredo sarebbe diventato sindaco negli anni Cinquanta (1956-1960, ndr)». Rammenta la figlia a proposito di quel tragico 2 febbraio in cui avvenne la rapina che avrebbe portato alla morte di suo padre: «Io avevo sei anni, uscendo dalla scuola Raiberti - perché all’epoca vivevamo al quartiere San Gerardo -, si presentò uno sconosciuto che era andato a parlare con la preside e mi disse: “Tuo papà ha avuto un impegno, ti porto a casa io”. Non ho mai saputo chi fosse, se fosse un appartenente alle forze dell’ordine piuttosto che un altro dipendente del Cappellificio. Ritornati a casa, io e mio fratello andammo a vivere per un po’ dai nonni, paterni e materni a turno. Ci fu un grande scombussolamento nelle nostre vite, mia madre non ce la faceva da sola con due figli piccoli...».

E i soldi? Osserva ancora Giuseppe Cazzaniga: «Papà stava bene, era impiegato di concetto, in dialetto a Monza c’era un detto che più o meno diceva: “Diventa cappellaio e poi papa”, insomma lavora in un cappellificio e sarai a posto per tutta la vita. Morto papà i suoi soldi  vennero vincolati a noi due figli minori sino alla maggiore età, che all’epoca si raggiungeva a 21 anni, ma una volta divenuti maggiorenni, con la guerra di mezzo e la svalutazione della lira, non rimase quasi più niente». Un ultimo ricordo di quella tragica rapina lo fornisce Angelo Dogini: classe 1928, all’epoca aveva quasi undici anni. Carlo Meregalli, il fattorino che viaggiava sulla carrozza al fianco del povero Ferdinando Cazzaniga, era suo zio. E, parecchi anni più tardi, avrebbe sposato proprio la sorella del defunto. «Ricordo bene quel giorno, frequentavo la quinta elementare e quando tornai a casa da scuola era tutto scombussolato per quanto avvenuto. Ricordo che l’auto dei banditi era fuggita da via Spalto Piodo, ricordo la confusione e mi hanno spiegarono cos’era successo, almeno per quanto è possibile a un bambino di dieci anni». Poi, la vita andò avanti. «In tragedia o in gloria - ricorda con un sorriso Angela Maria Cazzaniga – siamo sopravvissuti e abbiamo fatto la nostra vita».