Monza: quando ad allenare la squadra del carcere venne lo storico stopper di Maradona

Moreno Ferrario ricorda l’esperienza vissuta in via Sanquirico, l’incredibile rapporto coi detenuti e gli insegnamenti del Pibe de Oro

Moreno Ferrario  e Maradona al Napoli

Moreno Ferrario e Maradona al Napoli

Monza, 10 gennaio 2020 - Quando capiva che, per mille ragioni, la partita per loro diventava dannatamente importante, e le gambe rischiavano di tremare, snocciolava uno dei suoi aneddoti. Raccontava di quando aveva dovuto marcare Hugo Sanchez davanti a 90mila spettatori allo stadio San Paolo, o il grandissimo Van Basten alla Scala del Calcio, o ancora Platini, Falcao, Rummenigge. Senza boria, però, perché lui di boria non ne ha mai avuto neppure un briciolo, ma per infondere coraggio e dimostrare che alla fine è tutto un gioco, "a maggior ragione oggi, che in campo ci siamo solo noi, gli avversari… e le guardie".

Campionato di calcio C.S.I., stagione 2005-2006. Lo “stadio” è il cortile della casa circondariale di via Sanquirico a Monza. In campo, nella squadra “di casa”, ladri, rapinatori, banditi. In panchina, per un anno incredibile che rimane scolpito negli annali non scritti del carcere, un campione vero, che forse pochi o nessuno avrebbero potuto riconoscere: Moreno Ferrario, ex giocatore di serie A, stopper titolare del Napoli che vinse il primo scudetto della sua storia nella stagione ’86-’87. Al fianco di una leggenda: Diego Armando Maradona. La storia dell’incredibile stagione al carcere di Monza la conoscono in pochi. A Ferrario, che ha quasi sempre allenato ragazzi o bambini (oggi è direttore dell’Academy Legnano Calcio), viene fatta la proposta più incredibile mai ricevuta: allenare per un anno l’Alba, la squadra di calcio a 7 del carcere di Monza.

"All’inizio non me la sentivo - ricorda Ferrario - ma poi... fu l’esperienza più incredibile e bella della mia vita". A Ferrario brillano gli occhi. Con i detenuti costruisce un rapporto eccezionale, "non chiedevo mai che storia avessero alle spalle, tutto era improntato semplicemente al rispetto. E non ne ho mai ricevuto così tanto". L’Alba vince una partita dopo l’altra – tutte in casa ovviamente, ricorda con un sorriso Ferrario – e alla fine conquista lo scudetto. Ma non è quella la cosa importante. "Io non chiedevo, ma spesso erano gli stessi detenuti a raccontarmi cosa avevano fatto. Un giorno arrivò un bestione di colore, due mani grosse come macigni: pensava di dover andare in porta, ma non voleva usare le mani, gli dissi allora che poteva giocare anche fuori. Poi venni a sapere che con quelle mani enormi un giorno aveva gettato la moglie fuori dalla finestra. Eppure, con me fu sempre inappuntabile". E non è l’unico: "Sapevano che per poter giocare dovevano rigare dritti, e ci tenevano, quelle due ore al campo per loro erano il momento più importante della settimana. E lo divennero anche per me: non vedevo l’ora che arrivasse il fine settimana per incontrarli e giocare".

Le guardie si stupivano, "dissero che così non li avevano mai visti. Un giorno sul campo mi arrabbiai di brutto con un giocatore, gli urlai contro per uno sbaglio di gioco… soltanto dopo, mi resi conto di cosa avevo fatto". Il detenuto era un violento, la sua storia criminale da brividi. "A fine partita mi venne vicino e, davanti a tutti, mi disse: “Non ho mai permesso a nessuno di alzare la voce con me…". Silenzio. "Ma Lei può". La fiducia è totale. "Alla fine, mi permettevo qualche battuta. Una volta dissi: mi raccomando, quando uscite di qui non venite a rubare a casa mia!". La squadra ammutolisce. Poi uno dopo l’altro si fanno avanti: "Mai. Nessuno si permetterà mai di farle qualcosa di male!".

Moreno Ferrario, classe 1959, aveva cominciato sin da giovane a farsi rispettare, coi suoi modi seri e pacati. "E dire che io volevo fare l’avvocato… mio padre era muratore, vedevo la fatica che faceva e sognavo un giorno di non dovermi spaccare la schiena come lui, ma di andare al lavoro in giacca e cravatta". E invece arrivò il calcio. Giovanili del Varese, il dirigente Ricky Sogliano lo fa esordire in prima squadra a 16 anni in B. Poi un giorno lo chiamano per comunicargli che lo hanno appena ceduto al Napoli. "Ci rimasi 11 anni, gli anni più importanti della mia carriera. All’inizio ero un po’ intimorito, arrivai a Napoli da solo e mi ritrovai davanti a 4-5mila tifosi agli allenamenti. Non ero abituato, mai visti tanti al Varese". Ferrario impara a non farsi condizionare. "Bruscolotti, il capitano, venne subito ad accogliermi e mi spiegò: se correrai e suderai senza fare lo scemo, qui non avrai problemi". E Ferrario fa proprio così, i tifosi lo “adottano” subito.

Un giorno a Napoli sbarca l’uomo del destino, Maradona. "Per me, il più grande. E non solo come giocatore, ma come persona. La gente che giudica per quello che ha fatto fuori dal campo non lo ha mai conosciuto. Diego era fatto così, ha sempre vissuto la vita che voleva vivere. Ma era di una generosità straordinaria, con me ha sempre dimostrato il massimo rispetto, io sapevo di non essere particolarmente dotato tecnicamente, ma al suo fianco ci sentivamo tutti migliori". "Certo, i nostri caratteri erano agli opposti, io alle 10 di sera andavo a dormire, lui non dormiva mai. Agli allenamenti a volte dovevamo scongiurarlo di presentarsi per non far imbufalire Ottavio Bianchi, l’allenatore… ma quando vedeva qualcosa di tondo, cambiava e correva a giocare e a farci divertire". Grande personalità. "Il primo anno andavamo male, eravamo in ritiro prima di una gara con l'Udinese. Ferlaino, il presidente, ci venne a minacciare: se non avessimo vinto, avrebbe cacciato l’allenatore, Rino Marchesi. Maradona si alzò, prese la parola e gli disse: “va bene, ma prima caccerai me, e poi lui”, indicando col dito un compagno. “E poi lui”, indicandone un altro. E alla fine tutti, “perché in campo ci andiamo noi e se perdiamo la colpa è solo nostra”.Ferlaino ammutolì. Alla fine vincemmo quella partita 4 a 3". L’anno dei Mondiali in Messico Maradona fa l’impresa e conduce l’Argentina alla vittoria. "Eravamo preoccupati: pensavamo, se Diego vince quando torna non avrà più voglia, si era preparato come un matto tutto l’anno per quel Mondiale, temevamo che sarebbe stato appagato… E invece quando tornò, vincemmo lo scudetto. Segnai un gol decisivo pure io, a casa della Juve". Queste e altre storie diventano il bagaglio delle mattine al carcere di Sanquirico, i detenuti se le bevono. E imparano a vincere. "Quattro o cinque erano davvero bravi" si schermisce però Ferrario. Maradona non fu sempre un esempio di cui parlare ai suoi “ragazzi”, in campo è ricordato anche per un gol di mano, all’Inghilterra. "Non si fa, ci mancherebbe, ma anche quella è stato una dimostrazione di genio, Diego anche solo a pensare era di un’altra pasta. E forse quello ai Mondiali non fu l’unico gol che segnò così, anche se nessuno lo sa...".

Come? "Anni dopo quando ci vedemmo una sera con i vecchi compagni, Diego tirò di mostrò le immagini di una gara con la Sampdoria in cui aveva segnato di testa… e ci dimostrò che – anche se nessuno se ne era accorto, neppure noi compagni – aveva usato il pugno anche quella volta… anche se io francamente ancora non riesco a crederci, neppure quando riguardoquelle immagini".