
L’auto crivellata di colpi e il maresciallo Valerio Renzi
Lissone (Monza e Brianza), 14 giugno 2020 - La mattina del 16 luglio 1982 il maresciallo capo Valerio Renzi, che dal 1975 comandava la stazione dei carabinieri di Lissone, fa quello che fa ogni mattina. Pensa alle ferie che di lì a poco lo vedranno raggiungere la famiglia; la moglie e i due figli, di 15 e 11 anni, sono già a Bressanone, a casa dei nonni, ma nulla può distrarlo da quelli che sente come i suoi doveri inderogabili. Entra in servizio alle 7, sbriga la corrispondenza, poi esce per andare in paese a ritirare la corrispondenza. Sale sull’Alfetta blu di servizio e si dirige verso l’ufficio postale del paese. Lo fa sempre, da solo. Quello che non sa, è che girato l’angolo dell’edificio delle Poste in piazza Cialdini, alle 9.45 circa, si ritroverà in mezzo a una rapina a mano armata.
Un’operazione di esproprio proletario, come si apprenderà successivamente, dato che i rapinatori sono terroristi. L’auto del maresciallo viene crivellata di colpi, raffiche di kalashnikov partite da diversi punti. Il maresciallo fa a malapena in tempo ad aprire la portiera, mentre le raffiche di mitra continuano a bersagliare la macchina, che ormai priva di controllo prosegue la sua marcia.
A sparare si dice che siano tre uomini che fanno da “pali” appostati nella piazza e riversano sulla macchina dei carabinieri oltre 70 colpi. Quello fatale per il maresciallo probabilmente è quello sparatogli a bruciapelo al volto con una pistola da un componente del commando, il colpo di grazia esploso attraverso il finestrino. Valerio Renzi muore così: aveva 44 anni, era nato a Torricella in Sabina, in provincia di Rieti, il 29 giugno del 1938.
I terroristi fuggono a bordo di una Fiat Ritmo azzurra e di una Fiat 131 ritrovate abbandonate ore dopo. Il bottino della rapina è di appena un milione di lire, ma quello che conta di più - nella testa dei brigatisti - è aver ucciso un servitore dello Stato. Nella notte a varie testate giornalistiche giungono diversi messaggi di rivendicazione. Quello che si rivelerà più serio recita così: “BRIGATE ROSSE, colonna Walter Alasia, rivendichiamo l’esecuzione del Maresciallo Renzi nel corso di un’operazione di esproprio proletario". Con il messaggio, ci sono anche indicazioni precise sul calibro dei proiettili e l’arma dal quale è stato esploso il colpo di grazia. Non ci sono dubbi. Gli assassini sono loro.
Si scatena una caccia all’uomo, che verrà coronata (in parte) il 23 luglio, in una gelateria milanese dove, entrando, tre poliziotti notano una pistola poggiata su un tavolo, riposta in un sacchetto. I tre avventori al tavolino fanno parte della batteria che ha ucciso il maresciallo Renzi e intendono usare la pistola per commettere un’altra rapina, l’ennesimo esproprio proletario. Uno dei poliziotti va dritto in bagno e arma la sua pistola, mentre i suoi due colleghi si rivolgono agli uomini seduti al tavolo chiedendo loro se siano in possesso del porto d’armi.
Uno di loro finge di cercarlo, ma ne approfitta per afferrare l’arma e sparare. Il primo poliziotto, che attendeva appostato nel bagno, ne esce però subito rispondendo al fuoco e ferendo i terroristi. Uno solo di loro riesce a fuggire dal locale e a salire su una macchina di passaggio sotto la minaccia della pistola. Non farà troppa strada. Colpito pure lui, morirà per le ferite. I suoi due complici verranno condannati.
Intanto, qualche giorno dopo l’agguato, si erano celebrati i funerali del maresciallo Renzi. Arrivano una cinquantina di corone, fra cui quelle mandate dal presidente della Repubblica Sandro Pertini, dal presidente del Consiglio Giovanni Spadolini e da papa Giovanni Paolo II. "Tutta questa gente è con voi carabinieri, è gente laboriosa che è contro lo scatenarsi di una violenza assurda e che contesta pubblicamente il terrorismo". Queste le parole pronunciate al funerale dal prevosto di Lecco, Ferruccio Dugnani, inviato dell’arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini. L’Arma dei Carabinieri ha conferito la medaglia d’argento al valor civile alla memoria di Valerio Renzi. E davanti all’ufficio postale di Lissone si può ancora vedere il monumento alla memoria fatto erigere in suo onore.
Quella mattina a Lissone c’era anche un giovane militare di leva, Pietro Curcio, destinato, anni più tardi, ad abbracciare la carriera del vigile urbano, oggi comandante della polizia locale di Monza. "Quando ripenso a quel giorno - racconta - anche a tanti anni di distanza, mi corre ancora un brivido lungo la schiena". Erano anni difficili, il terrorismo imperversava, "atti di espropriazione proletaria e imboscate a rappresentanti delle forze dell’ordine erano frequenti. Un mio collega ed io quella mattina fummo mandati dal nostro comandante a fare un servizio di perlustrazione a piedi. Lui ci precedette in auto e si ritrovò in mezzo a quella rapina. Noi arrivammo ovviamente dopo: un passante ci avvertì ed entrai subito in un negozio per dare l’allarme. I terroristi fuggirono dalla parte opposta, avevano una bomba a mano: se ci avessero incrociati, forse ce l’avrebbero tirata".