Il “pastore“ degli ultimi. Una strada dedicata a monsignor Riboldi prete contro la camorra

Partito da Tregasio, per dieci anni visse nelle baracche del Belice finché riuscì a convincere Aldo Moro a impegnarsi a ricostruire. Da vescovo ad Acerra si oppose al potere di Cutolo a suon di manifesti

Il “pastore“ degli ultimi. Una strada dedicata a monsignor Riboldi prete contro la camorra

Il “pastore“ degli ultimi. Una strada dedicata a monsignor Riboldi prete contro la camorra

Tutto iniziò dalla Brianza, a Tregasio di Triuggio, "ero il secondo di 7 fratelli. Papà era disoccupato, aveva fatto il metalmeccanico ma si era infortunato dopo un incidente in acciaieria e andava in giro a cercare lavoretti per mantenerci. Mia mamma faceva la sarta e dai pantaloni di papà ricavava i pantaloni per tutti. In casa mia c’era un clima molto religioso, non c’era la tv e di sera mamma ci riuniva tutti a recitare il rosario".

E adesso, da domattina, la sua Triuggio, che non lo ha mai dimenticato, gli intitolera una strada, anzi un Largo. Grande cerimonia per monsignor Antonio Riboldi, scomparso nel 2017, vescovo degli ultimi, prete scomodo, primo sacerdote antimafia. Ordinato vescovo nelle baracche del Belice terremotato, don Riboldi non si era mai tirato indietro di fronte alle iniquità: nel 1982 balzò agli onori delle cronache guidando la marcia dei diecimila contro la camorra ad Ottaviano, in provincia di Napoli, “regno” del boss Cutolo. Don Riboldi così si rivolse agli studenti: "Questo giorno deve essere il nostro 25 aprile, perché stiamo combattendo una guerra di liberazione, così come nel 1945. La nostra è una battaglia senza armi o violenze, perché crediamo nell’uomo e nella pace".

E non a caso dal Comune di Triuggio è stato scelto il 25 aprile per inaugurare “Largo don Riboldi”. Alla manifestazione, che si terrà alle ore 9.50, in via Sant’Ambrogio, davanti alla casa natale di monsignor Riboldi, prenderanno parte don Luigi Ciotti, fondatore del gruppo Abele di Torino e Libera che ha raccolto il testimone nella lotta alla criminalità organizzata, don Vito Nardin, che con don Riboldi condivise la dura esperienza nel Belice terremotato, Valerio D’Ippolito, referente di Libera per Monza-Brianza, don Damiano Selle, parroco della comunità Sacro Cuore, e il giornalista del Mattino di Napoli, Pietro Perone, autore del libro “Don Riboldi, il coraggio tradito” (edizioni San Paolo). Nominato vescovo, don Riboldi fu inviato ad Acerra, in provincia di Napoli, città in cui lottò per tutta la vita affinché ci fosse un futuro diverso: dalla battaglia contro la camorra, a quella per il diritto alla casa e lo sviluppo economico. Interlocutore delle istituzioni e della politica, il sacerdote cercò di invertire il corso della storia, ma purtroppo il suo coraggio è stato via via tradito.

Di questi temi e della sua vita, aveva parlato anche al nostro giornale in un’intervista dieci anni fa: "Mio zio era un padre rosminiano e andai a Pusiano in una casa con 80 aspiranti sacerdoti. Da lì ho cominciato il mio cammino". Un giorno la svolta. "Ero destinato a fare il parroco, ma il vescovo di Mazara del Vallo chiese aiuto ai Rosminiani e nel 1958 fui catapultato a Santa Ninfa, un paesetto siciliano nella Valle del Belice il cui parroco si era sposato con una parrocchiana destando grande scandalo. In chiesa non ci andava più nessuno: per due anni mi toccò dormire su un divano in sacrestia perché non avevamo nemmeno una casa canonica... eppure dopo un po di tempo in quel paese, la gente ricominciò a mandare i bambini in chiesa. Poi toccò alle donne e agli uomini". Nel 1968 il Belice fu fu sconvolto dal terremoto. "Per 10 anni sono vissuto in una baracca di legno con gli altri terremotati, cercai di dare l’anima: diedi battaglia alle autorità. E un giorno Aldo Moro venne in visita, rimase un’ora in devozione in ginocchio e quando uscì disse: ”Questa è un’offesa a Dio”. E dette ordine di ricostruire".

Nel Belice si battè contro la mafia. "In Sicilia pensavano che urlassi perché ero un continentale, uno “scemo” che veniva da Milano. Collaborai anche col generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: eravamo molto amici". Dopo 20 anni, la camorra, col trasferimento ad Acerra. "Io avevo molti dubbi, ero sempre stato solo un parroco e quella era una zona di camorra. Per la festa del paese feci tappezzare il paese con manifesti con la scritta “per amore del mio popolo non tacerò”: avevo lanciato il mio guanto di sfida".