Giovanni e il lager prima di conoscere il figlio

La tragica deportazione dell’operaio della Falck dalla sua casa di Sant’Albino: "A Mauthausen ci colpì subito l’odore di carne bruciata"

Migration

di Dario Crippa

Non aveva ancora 41 anni Giovanni Poli. Aveva però una moglie, Maria Motta, una casetta in una cascina nei campi fra Sant’Albino, in via Giovanni delle Bande Nere, e Brugherio. E un lavoro come operaio alla Falck di Sesto San Giovanni dopo gli anni da contadino. Tempo un mese, Maria gli avrebbe dato un quinto figlio, Renato. Ma Giovanni non lo avrebbe mai conosciuto. Perché il 12 marzo 1944 lo sgommare di un camion e lo scalpiccio degli stivali di un numero imprecisato Camicie Nere squarciò il silenzio di una notte che sembrava tranquilla.

Era l’1 e 30 quando Giovanni venne prelevato di forza nella lunga notte di rastrellamenti in cui svanirono nel nulla 17 brianzoli come lui. Condotto alla caserma dei carabinieri di via Volturno a Monza, quella fu l’ultima volta in cui vide i propri cari. Caricati su di una corriera, sarebbero stati trasferiti al carcere di San Vittore Milano, con l’accusa di “organizzazione e istigazione agli scioperi e atti di sabotaggio contro la Repubblica fascista.” Avevano partecipato allo sciopero generale organizzato il 1° marzo in molte fabbriche del Nord Italia. Ammassati in condizione disumane anche in 20 per cella sarebbero stati “venduti” ai Tedeschi. Destinati a lavorare nei loro campi di concentramento per fabbricare (i più fortunati) armi e munizioni. "Verso le ore 21 del giorno 13 marzo ci radunarono tutti e ci costrinsero a salire e per farci stare stretti come sardine, non mancavano colpi di moschetto sulla schiena e sulle gambe. Non sapevamo dove ci avrebbero portato, pensavamo già al peggio" le parole di Giovanni raccolte da un compagno di prigionia. In seguito a un viaggio lunghissimo su vagoni bestiame con pochissimo cibo e ancora meno acqua ("riuscimmo a bagnarci le labbra solo il terzo giorno con quella poca neve che si riusciva a recuperare allungando le mani a turno dai piccoli finestrini"), "ci fecero scendere, poi sentii una voce dire: “siamo arrivati a Mauthausen, andiamo a stare male”... era un uomo già internato nel 1917 e conosceva la fama di questo luogo". Definito da Himmler, uno più spietati ufficiali delle SS, "un campo di 3° livello", ossia costruito apposta per l’annientamento degli internati ritenuti non rieducabili attraverso il lavoro massacrante e la scarsissima alimentazione, il campo di Mauthausen, in Austria, “ospitava” ebrei, antifascisti, oppositori politici, omosessuali, rom e disabili. Ognuno marchiato in modo differente. Quel 20 Marzo 1944 "era anche una bruttissima giornata fredda, cadeva una copiosa neve mista acqua. Ci fecero incolonnare con i nostri bagagli e incominciammo a salire verso il campo, quei 4 km che dividevano la stazione dal campo furono un vero tormento tra ghiaccio e fango. Nelle vicinanze del campo notammo degli strani individui molto magri vestiti a strisce bianche e blu, arrivati ai piedi dell’imponente ingresso del campo di Mauthausen l’impressione che ci fece era ancora più spaventosa di quello che si potesse immaginare". Spogliati, rasati a zero, disinfettati e portati nelle baracche, il loro destino era il lavoro duro. Le giornate al campo sono interminabili, "all’appello eravamo obbligati a stare 3 ore in piedi nel cortile sotto qualsiasi tipo di intemperie. Chi non si presentava veniva punito con 50 scudisciate con manganelli che avevano all’interno fili di rame che lasciavano segni quasi indelebili. Le razioni di cibo erano una brodaglia alle 6 del mattino e una la sera a fine giornata intorno le 18, e verso mezzogiorno una fetta di pane e una di salame oppure una di margarina". Giovanni Poli, numero di matricola 59068, viene assegnato, come la maggior parte degli operai del gruppo di Monza, al sottocampo di Gusen I, a circa 5 km. "Una cosa che ci colpi subito era quello strano odore di carne bruciata che usciva da un comignolo molto alto di una baracca e che il vento portava spesso ad altezza uomo. Venimmo a sapere poi che si trattava del forno crematorio". Giovanni Poli si ritrova a costruire il sottocampo di Gusen II. Un lavoro molto duro, fame, punizioni, l’aspettativa media di vita non superava i 4 mesi. Giovanni Poli resiste anche meno e muore a Gusen II il 16 giugno del 1944.

A ricostruire tutto è stato Lorenzo Citterio, nipote di un altro internato di Sant’Albino, Luigi Montrasio, caricato sui convogli della morte in quella stessa notte del 1944: "Mio nonno abitava a poca distanza dalla casa di Poli: li portarono via entrambi. Ho voluto ricostruire tutto. La conoscenza e la consapevolezza di tutto questo orrore è stata possibile solo grazie alla tenacia e al sacrificio di chi tornò vivo ed ebbe la forza di raccontare come nel libro “A Gusen il mio nome è diventato un numero” di Angelo Signorelli".