MARCO GALVANI
Cronaca

Fase 2, dall'autoconfinamento alla sindrome da sequestro: le fobie del dopo lockdown

Gianluigi Mansi, responsabile Riabilitazione psichiatrica Istituti Zucchi: "Ripresa tra sollievo e preoccupazione, ansie e depressioni"

Gianluigi Mansi, responsabile Riabilitazione psichiatrica degli Istituti clinici Zucchi

Monza, 13 maggio 2020 - La Fase 2 riapre la porta verso un mondo diverso. "La quotidianità che c’era prima non tornerà dall’oggi al domani e bisognerà riadattarsi, non negare le emozioni". Gianluigi Mansi è il responsabile della Riabilitazione psichiatrica degli Istituto clinici Zucchi. Psichiatra e psicoterapeuta, sa bene che "l’uscita da questi due mesi che potremmo definire di letargo, in una sorta di normalità condizionata ancora dalle mascherine, dai guanti e dalla distanza da tenere gli uni dagli altri, porterà ad atteggiamenti diversi, a sviluppare delle fobie importanti come l’autoconfinarsi in casa per la paura del contagio o, all’opposto, la sindrome da sequestro, ovvero il sentirsi privati ingiustamente della propria libertà e decidere di uscire senza seguire le regole di sicurezza".

Dottore, la vita ormai sta riprendendo una «nuova normalità», come potremo superare gli squilibri di questi oltre due mesi di quarantena?

"A livello individuale la ripresa dipenderà da due elementi: innanzitutto da come è fatto il soggetto e poi dal danno che ha subito. C’è chi ha perso familiari, amici. C’è chi ha perso il lavoro. Addirittura chi entrambi. Ecco, occorre capire cosa è stata la quarantena per il singolo. La ripresa sarà un sollievo o una preoccupazione per esempio legata al fatto che si torna alla vita di prima – e non per tutti era il massimo – e al timore di essere contagiati. Sicuramente avremo bisogno di gradualità, di fare le cose con quella lentezza che, in fondo, abbiamo un po’ trovato stando chiusi in casa. Sperando che anche lo Stato ci costringa a un tempo con una percorrenza più lenta".

Quali possono essere i traumi da coronavirus?

"Ci attendiamo aumenti del disagio psicologico, del 30-40% delle ansie, delle depressioni. E poi ci sarà il problema di tutti i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari che sono stati in prima linea, che manifesteranno disturbi post-traumatici. Una dottoressa, un ortopedico, passata a lavorare in un reparto Covid oggi è distrutta. E ha chiaramente confessato di non avere più voglia di fare il medico. Passare dalle retrovie alla linea del fronte avrà delle conseguenze. E già si cominciano a vedere i primi casi, se vogliamo, più banali, come mal di testa, dimagrimento, ansia, depressione, modifica del sonno. Come peraltro è capitato a tante persone".

Ma evidentemente il disturbo post-traumatico non è ancora comparso...

"Stiamo parlando di un trauma complesso da gestire, che compare dopo eventi molto gravi come atti terroristici, incidenti, terremoti e in cui purtroppo, rientra anche l’epidemia da Covid-19. In quest’ultimo caso il disturbo può colpire chi ha perso i familiari o gli operatori sanitari. Una signora mi ha raccontato che le ultime parole che ha sentito dall’anziana madre ricoverata in una casa di riposo prima di morire sono state “Portami a casa, portami a casa“. Uno strazio devastante. Tutte queste persone sono a rischio. Dovranno fare i conti con flashback e ricordi ricorrenti, incubi, iperattività, irritabilità, ipervigilanza, disturbi dell’umore fino al rischio di iniziare ad abusare di droghe, alcol o farmaci. E se ogni psichiatra o psicoterapeuta è in grado di rispondere ai traumi lievi, per il disturbo post-traumatico da stress è necessaria un’équipe specializzata. Come quelle per i soldati che rientrano da zone di guerra. Siamo davanti a una patologia che è un baratro nero in cui c’è dentro non una persona ma tutta l’Italia. Qui a Monza abbiamo un’équipe che si metterà in gioco, faremo la nostra parte, come tutti".

Molti, dunque, manifesteranno comportamenti che sono effetti collaterali della quarantena: in che società ci ritroveremo a vivere?

"Nonostante ci sia tanta gente che fa il profeta, non possiamo sapere come andrà a finire. E’ talmente grosso e impensabile quello che è accaduto che nessuno può prevederemo come saremo".

Di certo, però, già stiamo cambiando il modo di relazionarci e comunicare.

"Ci dobbiamo abituare a decifrare gli sguardi. Sono impediti tutti i gesti che per cultura facciamo, come il darsi la mano, l’abbracciarsi, il toccarsi. La mascherina ci coprirà ancora per molti mesi e allora ci dovremo salutare, amare, odiare, ringraziare e preoccupare con gli occhi. Le parole stesse si sentiranno meno, perderemo in parte l’immediatezza della comunicazione. Potremmo dire che ci saranno tante stratificazioni di sensazione".

Come potremo cominciare a darci una mano a vicenda?

"Innanzitutto occorre prendersi tempo per metabolizzare l’accaduto. E permettersi di non stare bene, senza vergogna e senza fretta di riprendersi. Sarà importante parlare e condividere il proprio stato d’animo con chi ha avuto un’esperienza simile, magari anche chiedendo aiuto agli esperti se necessario. E poi, con calma, costringersi a riprendere i ritmi regolari di vita". In molti casi, però, la vita continuerà restando a casa, per la gestione dei figli e grazie allo smart working. Quali rischi si corrono? "Sarà fondamentale imparare a dividere, scandire con precisione la giornata per evitare la contaminazione degli spazi e dei tempi". In queste settimane c’è chi esprime un maggiore ottimismo verso il futuro". E’ una reazione sincera o soltanto un meccanismo di difesa per esorcizzare le preoccupazioni? "Potrei pensare, per molti casi, a una costruzione. Avete presente quando i bambini devono attraversare da soli una stanza buia e si ripetono a voce alta “Io sono forte, qui non c’è niente“? S’inventano queste cantilene autoconsolatorie che gli permettono di attraversare un momento così pauroso perché dietro l’angolo potrebbe esserci il mostro. E forse dovremmo imparare da loro. Che anche oggi si stanno proteggendo in un mondo di fantasia".