Coronavirus: "Non vedo mio figlio da 20 giorni . È un inferno"

La testimonianza di un’infermiera in servizio nell’ospedale di Desio dove i turni non esistono più e il materiale per i sanitari scarseggia

"Tutti i colleghi siamo stanchi, spaventati, ma ce la stiamo mettendo tutta"

"Tutti i colleghi siamo stanchi, spaventati, ma ce la stiamo mettendo tutta"

Desio (Monza e Brianza), 24 marzo 2020 - «Non vedo mio figlio da quasi 20 giorni. Per i turni massacranti e per la paura di contagiarlo. Qui siamo sempre a rischio, in qualsiasi momento puoi finirci dentro. Ma lo faccio con passione, come una missione...". Cronache dal fronte del pronto soccorso dell’ospedale di Desio. "Purtroppo abbiamo un continuo arrivo di pazienti, in media 12-15 al giorno da un ampio bacino, e quasi tutti risultano positivi - racconta l’infermiera, prima di prepararsi per l’ennesimo turno infernale, con le ore che quasi non si contano più, la cognizione del tempo che inizia a sfuggire -. Alcuni hanno una polmonite in corso ma respirano e compensano ancora in maniera regolare, allora siamo costretti a mandarli a casa, in isolamento preventivo, perchè non ci sono posti. Per gli altri, bisogna cercare un angolo da qualche parte".

Un viavai incessante, ormai da settimane. Una corsa con il cronometro in mano. Spazio e tempo. Tempo e spazio. Due concetti vitali, che purtroppo in questo periodo scarseggiano sempre di più. Come due spade di damocle che pendono e minacciano giorno dopo giorno, ora dopo ora, sempre più pazienti. Perchè tutto, adesso, è stravolto. I ritmi di vita, quelli di lavoro. Non c’è più routine, solo emergenza. Emergenze. Tutte uguali, ma così diverse. Perchè si parla di persone. "Ormai quasi tutto l’ospedale è trasformato in reparti Covid - dice -, ci sono tanti anziani, è vero, ma arrivano anche giovani dai 30 anni in su. E sono forse i più spaventati. Anche se poi quelli più a rischio sono gli anziani e si assistono a scene strazianti, tutti i giorni".

Perchè per ogni paziente su un letto di ospedale ci sono tanti famigliari a casa, in fibrillazione, in trepidante attesa di qualche segno di speranza. E non è assolutamente facile poter comunicare con tutti e costantemente. "La cosa più triste è quando cerchiamo di metterci in contatto con famigliari a casa - racconta - con delle videochiamate al cellulare o su tablet. Tu cerchi in qualche modo di rassicurare il parente, di fargli forza, dici al paziente di salutare a casa, finchè è ancora lucido, ma sai già che c’è poco da fare in certi casi. Certe persone anziane si complicano e si spengono in un attimo. E’ veramente una cosa straziante, che ti tocca a livello emotivo in maniera forte".

E allora si fa fatica a trattenere le lacrime. Soprattutto quando vedi che uno, due, tre, anche otto persone, in 24 ore, passano dall’altra parte. E tanti altri sono appesi a un filo. Una partita doppia: da un lato per salvare i pazienti, dall’altro per tutelare se stessi. "Tutti i colleghi siamo stanchi, spaventati, temiamo il contagio, ma ce la stiamo mettendo tutta, saltiamo i riposi, senza risparmiarci un attimo. Dobbiamo rimanere uniti e determinati. Anche se non è facile: alcune colleghe sono risultate positive ed è un attimo rimanere contagiati, basta magari una manovra sbagliata. Anche perchè le mascherine sono sempre poche, i camici per tutti sono arrivati da non molto. Purtroppo è sempre tutto col contagocce e se si rompe una mascherina, ad esempio, fai fatica a trovarne un’altra. È veramente un grande stress psicofisico, ma siamo in campo e non ci tiriamo indietro". Tanti problemi, che a volte si intrecciano. Anche con l’ossigeno, che a volte per il sovraccarico, scarseggia e manda in blocco gli impianti. «Io il tampone non l’ho fatto, sono per non sprecarli, per farli solo se hai sintomi - dice -. Per scelta, non vedo mio figlio da quasi venti giorni e anche da mia mamma, porto la spesa e me ne vado via. Non voglio rischiare di contagiare i miei famigliari. Li sento su whatsapp e torno a lavorare. Devo portare avanti la mia missione. Insieme, ce la faremo".