Bellusco, morto in un incidente sul lavoro: "Cuore spezzato"

I periti, i magistrati, gli inquirenti dovranno decidere che cosa abbia causato il diciannovesimo morto di lavoro in Lombardia a partire dall’inizio dell’anno

Antonio Limonta

Antonio Limonta

Bellusco, 22 aprile 2018 - «Mamma, hai 50 centesimi per la chiavetta?». In queste parole c’è una normalità che non tornerà più. È l’ultima frase di Antonio Limonta a Carla Misani, l’imprenditrice che venerdì ha perso suo figlio schiacciato da una macchina taglia-laser nella carpenteria di famiglia, la Fratelli Misani di Bellusco, in Brianza. Lei e il marito Roberto Limonta non riescono ancora a crederci. Lui aveva 42 anni, allegro, esperto e sportivo. Aveva anche il brevetto da pilota di ultraleggeri. Dentro il capannone pulito e ordinato di via dell’Artigianato non era mai accaduto nulla di simile. Ora è partito il necessario e doloroso iter dell’inchiesta giudiziaria. I periti, i magistrati, gli inquirenti dovranno decidere che cosa abbia causato il diciannovesimo morto di lavoro in Lombardia a partire dall’inizio dell’anno. 

 

Antonio era il solo figlio di Roberto e Carla Misani. «Non diciamo che non doveva succedere, ma che non poteva succedere. Quella macchina è tedesca, ce l’abbiamo dal 2010, ha delle fotocellule perfettamente funzionanti. Se passa una formica, si blocca. Anzi, a questo punto, siamo costretti a usare il condizionale: avrebbe dovuto farlo. E, invece, no. Non capiamo cosa sia successo. Antonio era un lavoratore esperto, solo una settimana fa aveva frequentato l’ultimo corso di formazione per un altro macchinario, a Milano. Abbiamo 16 dipendenti, siamo al top sotto il profilo della sicurezza. Abbiamo sempre assolto tutti gli obblighi di antinfortunistica e prevenzione. Figuriamoci il contrario. Non avremmo mai messo a rischio i nostri ragazzi. Farlo, significherebbe lederne l’integrità e la dignità. Ci ripugna solo pensarlo».

Cosa è successo in fabbrica venerdì pomeriggio?

«Antonio era da solo sulla taglia-laser con carico e scarico, ma avrebbe già dovuto essere fuori da mezz’ora. Due suoi carissimi amici ci hanno detto che avevano un appuntamento alle 17. Ma lui non ci è mai arrivato… Lavorava con passione, se aveva una cosa da finire, non badava all’orario».

Non era un figlio di papà.

«Era un ragazzo semplice, solare, che amava la vita, sempre sorridente. Pieno di hobby. Ha viaggiato in tutto il mondo, adorava le immersioni, a gennaio era stato a Cuba. Prima, in Venezuela, Brasile, Stati Uniti. Partiva da solo, con i suoi sogni e le sue speranze. È finito tutto così, in un attimo».

Carla lei era in ufficio.

«Sì. Alle 17.30 ho sentito uno dei nostri tecnici che aveva appena smontato urlare “Antonio”. Mio figlio era finito sotto quella maledetta macchina. Lui e mio cugino mi hanno detto: lo tiriamo fuori. Ma non hanno voluto che mi avvicinassi. Mi è crollato il mondo addosso. Nessuno aveva il coraggio di dirmi che era morto. L’ho capito da sola, subito».

Roberto, invece, lei era a casa...

«Ho ricevuto una telefonata, mi invitavano ad andare subito in azienda. D’acchito, ho pensato che mia moglie avesse avuto un malore. Sono corso al capannone. C’erano carabinieri, 118, vigili del fuoco e un sacco di gente. Tutti con gli occhi lucidi. Ho intuito che si trattava di Antonio. Non riesco a dire cosa ho provato. Volevo vederlo, ma me l’hanno impedito, ovviamente».

L’inchiesta chiarirà cosa è successo esattamente.

«Pensate al mio dramma. Ho sempre fatto più di quel che si deve per prevenire incidenti sul lavoro. Ed è morto mio figlio. Sono il legale rappresentante della ditta, riceverò un avviso di garanzia con il quale la legge mi dice che forse ho qualche responsabilità in quel che è successo. E anche se è un atto dovuto, fa un male che mi spacca il cuore».

Cosa direbbe ai suoi colleghi che non investono in sicurezza?

«Che è un errore tragico. Da non commettere assolutamente. La vita di un uomo non ha prezzo. Immaginatevi quella di un figlio».

Qual è ora il ricordo più caro?

«Venerdì abbiamo pranzato insieme, a casa, per l’ultima volta. Poi siamo tornati al lavoro. Non sapevamo che non ci saremmo più abbracciati».