Gallera: "Covid? Io ho fatto il mio dovere. La vera lotta era contro il governo"

L’ex assessore regionale mette nero su bianco quanto accadde quando divampò la pandemia

Giulio Gallera

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Milano -​ Lo definisce subito "una sorta di diario di guerra". Ma la battaglia, precisa poco dopo, era in realtà su due fronti: "Il primo è quello istituzionale, dove abbiamo intrapreso un braccio di ferro con il governo affinché emanasse provvedimenti per rallentare i contagi".

A due anni di distanza dalla pandemia da Covid-19 Giulio Gallera prova a mettere alcuni punti fermi sulla lotta contro il virus in Lombardia e a togliersi anche qualche sassolino dalla scarpa. Lui che, a undici mesi dallo scoppio dell’emergenza sanitaria, ha comunque dovuto lasciare l’incarico di assessore regionale al Welfare. "Sia i primi che gli ultimi giorni della mia gestione della pandemia sono stati curiosamente caratterizzati da forti polemiche", scrive nel suo “Diario di una guerra non convenzionale“, da poco uscito nelle librerie. E a quegli attacchi risponde con i numeri: "Secondo l’Istituto superiore di sanità il tasso di letalità è stato nella prima ondata del 2,36 per cento in tutt’Italia. In Lombardia, però, è del 2,28 per cento, cioè più basso della media".

Gallera, che opinione ha, oggi, di quei fatti?

"La Lombardia, la regione italiana più colpita dal virus, è quella che ha salvato più vite. L’indice di letalità è più basso che altrove nonostante l’altissimo numero di infetti: 750.000. Vuol dire che li abbiamo curati meglio che in altre regioni".

Però non gliel’hanno riconosciuto, visto che un rimpasto di giunta l’ha lasciata fuori dalla porta.

"Si sono fatti condizionare dai pregiudizi. Il mio turno di guardia è finito con l’arrivo dei vaccini. Iniziava, cioè, un’altra fase rispetto a quella che avevo gestito io dal febbraio 2020. Ma poi la politica è fatta anche di queste cose".

A che pregiudizi allude?

"Dalla fine di aprile di due anni fa è partito un attacco mediatico senza precedenti contro la Lombardia. Si esprimevano giudizi guardando a un singolo fotogramma, distanti da dove i fatti accadevano. E lo si è fatto senza rispetto dei morti e del dolore di chi perdeva i propri cari per colpa di quello tsunami".

Lei conserva gli appunti di tutta quella stagione. Il 4 marzo al ministro Roberto Speranza chiede l’istituzione di una zona rossa ad Alzano Lombardo e a Nembro. Non si farà mai. Chi ha detto no?

"Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Ha detto no evitando di controfirmare un Dpcm che, come si è poi scoperto, era già pronto il 5 marzo. Il giorno, cioè, che militari e forze dell’ordine cominciano ad affluire, con circa 300 unità, ad Alzano Lombardo. L’istituzione della zona rossa non arriva neppure venerdì 6. I motivi di questa scelta sono ancora ignoti".

Il suo diario è un atto d’accusa contro l’operato dell’allora governo.

"Il governo è sempre stato lontano e soprattutto recalcitrante nel prendere decisioni forti. Già quella del primo marzo si rivela un’ordinanza più debole delle misure che avevamo adottato a livello regionale. E deludente, soprattutto, si rivelerà il Dpcm del 7 marzo. Ci vorrà una lettera di tutti i sindaci dei comuni capoluogo e dell’Unione province lombarde perché, l’11 marzo, arrivi finalmente un Dpcm efficace".

Ritardi colpevoli?

"Roma, per troppo tempo, non ha capito la gravità della situazione. Il 7 febbraio aveva detto: “Il virus non gira in Italia“. E l’11 che non girava in Europa. Un atteggiamento rimasto tale per settimane, anche quando la situazione era tragica".

La Lombardia non effettuava tamponi, la gente era esasperata.

"I primi cinque giorni li facevamo a tappeto. Poi Speranza chiama e ci dice: alt, farne così tanti non serve e spaventa l’opinione pubblica. Il 25 febbraio, con un’ordinanza, impone di effettuarli soltanto a chi presenta sintomi".

La delibera regionale sulle Rsa è stato un passo falso?

"No, perché era molto precisa sui requisiti richiesti. Infatti su 709 Rsa solo 15 aderiscono. Su oltre 4.000 pazienti ospitati nelle cure intermedie solo 165 vengono spostati nelle Rsa. Se c’è stato contagio, causa di tante morti, è perché il virus girava da mesi ed era già entrato in quelle strutture".

Con le sue dichiarazioni sul calcolo dell’indice Rt fu messo alla berlina.

"Oggi sarei più prudente con le semplificazioni. Volevo solo rassicurare la gente, allora così impaurita. Non ci sono riuscito, a causa di alcune inesattezze. Gli attacchi, però, erano tutti di natura politica e strumentale. In linea con i veleni di quella stagione, che avevano regia e obiettivi precisi".

Si parlava di lei come del futuro candidato sindaco a Milano.

"Girava il mio nome. Ma già prima del Covid. Era stata sondata la mia disponibilità per le Comunali di Milano prima della candidatura di Parisi. Poi tutto è stato usato per indebolire la mia immagine".

E adesso?

"Finché i cittadini continueranno a darmi la loro fiducia seguiterò a servire il Paese e la mia regione. Altrimenti mi dedicherò alla mia professione di avvocato".

Vorrebbe ricandidarsi?

"Sì, sempre che il partito me lo chieda. Alle regionali o, perché no, alle politiche".

 

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