
La rosa simbolo de La Milanesiana ed Elisabetta Sgarbi, ideatrice della rassegna
Milano – Per la Milanesiana appuntamento oggi, martedì 10 giugno, alle 21 al Volvo Studio di Milano, dal titolo “Il talento del cervello e del sistema immunitario”, dedicato all’intelligenza profonda del corpo umano, con particolare attenzione al legame tra mente, emozioni e sistema immunitario. Dopo i saluti introduttivi di Chiara Angeli, Sales and Marketing Director di Volvo Car Italia, la serata si apre con il prologo di Maria Sole Sanasi d’Arpe.
A seguire, le letture della neuroscienziata Michela Matteoli, della divulgatrice scientifica Eliana Liotta e dell’immunologo Alberto Mantovani offriranno uno sguardo articolato e suggestivo sulle potenzialità del cervello e delle nostre difese biologiche.
Chiude l’incontro il concerto “Spiriti guida” con Cristina Donà & Saverio Lanza, uno spettacolo eterogeneo che accosta al repertorio di Cristina Donà l’opera di quegli artisti (gli spiriti guida appunto) che hanno nutrito la loro anima e contagiato il loro cammino, in una rilettura che attinge da Battisti ai Bee Gees al compositore Claudio Monteverdi, dai Beatles a Sinead O’Connor, passando per De Gregori, Bjork, Bowie e molti altri.
Vi proponiamo in anteprima l’intervento di Maria Sole Sanasi d’Arpe.
Nel titolo di oggi abita un’ambivalenza, che significa la chiave della sua spinta propulsiva: l’originale accostamento del talento – parola fortemente legata alla dottrina biblica e alla semantica spirituale oltre che umanistica – e del cervello, di cui invece parliamo in termini tecnici, afferenti alla biologia umana, scientifici. Eppure la distanza tra questi due mondi (umanistico e scientifico), attraverso l’utilizzo dei due termini, è molto meno lunga di quanto potrebbe sembrare. Quella del talento è una lunga strada, che inizia dal greco antico τάλαντον (bilancia), che poi diventa moneta, fino all’assunzione del significato di volontà e desiderio in epoca medievale che si diffonde in tutte le lingue romanze, per approdare in ultimo al senso tutt’ora comunemente attribuitogli di capacità individuale.
Una risemantizzazione che origina dalla parabola dei talenti del Vangelo di Matteo, e che per molto tempo fu propria unicamente del contesto teologico neotestamentario, prima di affermarsi completamente superando il significato classico e quello del medioevo. Il talento, perciò, in virtù della coscienza evangelica, ha attraversato una metamorfosi: è passato da intento a virtù. Ovvero da ciò verso cui protendere a ciò che, all’opposto, è già insito nella nostra identità. Ci appartiene, quindi, senza aver compiuto lo sforzo di cercarlo; senza che fosse preceduto dall’ὀρέξις, da quella facoltà umana che per Aristotele è tensione e brama desiderante. Si tratta perciò di una dimensione totalmente gratuita: in effetti, di un dono. Un dono che si sedimenta nel nostro spirito, e che vi permane, in potenza, fino a quando non è coltivato.
E’ proprio questo il fine del talento: che la coscienza sappia impiegarlo, tirarlo fuori dal suo limbo e renderlo concreto, perché si realizzi compiutamente in atto. Ed è così che la parabola di Matteo - che narra di un padrone che prima di partire aveva donato ai suoi servi una quantità di talenti secondo le capacità di ciascuno ed al suo ritorno aveva rimproverato l’unico dei tre che li aveva seppelliti senza raddoppiarli - si riempie di senso. Quello del cervello, ovvero l’arbitrio che muove il talento: il sistema che mette in atto per mezzo del suo lavoro la gratuità della dote ricevuta. In sostanza, è Dio che dona il talento ma è solo dell’uomo, della sua mente, la capacità e la libertà di farne uso, di renderlo visibile all’esterno, di illuminarlo – perché l’opera del Creatore (così come nel prologo in cielo del Faust di Goethe) è “insondabile” come lo è la sua Mente: non è affare della meschinità degli uomini, né dei demoni comprendere il suo disegno (come Mefistofele che critica le scelte di Dio, poiché lascia che gli uomini si tormentino nell’impiegare il lume celeste, cioè la ragione “per essere più bestia di ogni bestia”).
Il Padreterno infatti lascia che il demone tenti il dottor Faust, confidando nel libero arbitrio della sua creatura: non perché abbia fiducia nella di lui forza, nella determinazione, nell’intelletto di un’eminenza scientifica come è Faust… ma nella sua bontà. Egli troverà infatti la salvezza nella sua capacità di orientare il talento verso il prossimo, nell’aspirazione verso l’alto tramite la ricerca costante dell’altra da sé (dell’eterno femminino, das Ewig-Weibliche). Faust non si abbatte in nessuna condizione avversa, nemmeno nella cecità. Egli ha colto che il Principio della realtà non è letteralmente il “Verbo”, cioè strettamente la «parola», né il «pensiero», né la «forza», bensì l'«atto»: l'azione nel suo farsi dinamico.
Dunque la rappresentazione plastica del talento: il dono di Dio che diventa azione, che si realizza grazie all’arbitrio dell’uomo, al talento del suo cervello. Il talento ch’è un dono divino non esclude perciò l’applicazione pratica dell’intelligenza, anzi l’avvalora; ma non ammette i criteri terreni degli uomini o del demonio, che cerca di imitare maldestramente il Creatore offrendo agli uomini doni materiali, fine a sé stessi, e non spirituali, che permettano cioè lo sviluppo verso la costruzione della vita, governata perciò dall’individuo padrone delle sue azioni e capace di conquistare da sé i propri successi – senza gli ausili scorretti, zoppicanti e dal doppio risvolto di Satana. Per giungere all’assoluto in questa vita non serve l’intelligenza raziocinante, ma una «nuda tensione» verso Dio, un «piccolo, cieco impulso d’amore»: così il vero contemplativo entrerà nella Nube della non conoscenza come vi entrò Mosè quando salì sul monte Sinai per parlare con il Signore in una «nube d’oblio», e colpire col dardo affilato dell’amore ardente la nuda essenza divina.
Questa l’essenza del dono, così come ci viene presentata in uno dei testi mistici occidentali più intensi, che ci arriva dal medioevo (verso la fine del Trecento): “La nube della non conoscenza”, scritto da un anonimo inglese in forma di manuale dell’attività contemplativa indirizzato ad un giovane novizio. La combinazione tra l’innatismo del talento (che prescinde del tutto dall’esperienza) con l’aspetto neuroscientifico, che ha a che fare con lo studio del cervello - dunque ciò che per definizione necessita di verifiche (dati esperiti scientificamente, appunto) - rappresenta esattamente la commistione tra umanesimo e scienza. Due saperi che avvertono la necessità di non essere intesi come distinti, ma che anzi, hanno bisogno d’incontrarsi.
Com’è proprio della principale dote del cervello, quella di fare collegamenti - così secondo Aristotele il grande mondo (μέγας κόσμος), ovvero la realtà in cui viviamo, costituisce un legame profondo con il nostro piccolo mondo (μικρὸς κόσμος), quello del cervello dell’individuo, e pertanto micro e macrocosmo s’influenzano a vicenda, sono intrinsecamente collegati; e in tal senso, sono rivolti verso la conservazione, la vita – scientificamente – ed il progresso – spiritualmente detto. Quella di un uomo che pensi in grande, che cioè non settorializzi i campi del sapere; che, come il suo sistema di riferimento – quello del cervello – crei collegamenti tra le diramazioni dell’agire e del conoscere: tra la vita attiva e contemplativa, secondo l’individuazione socratica dell’individuo. Per Werner Heisenberg “ogni lavoro scientifico si sviluppa, consciamente o inconsciamente, a partire da un’impostazione filosofica, da una determinata struttura mentale, che fornisce al pensiero un fondamento stabile”. Ciò significa che il lavoro scientifico deriva da un’armatura filosofica e che di conseguenza appartenga alla nostra natura guardare all’impianto complessivo della realtà, e non ad una sua piccola parte. E ancora secondo Heisenberg: “Nel progresso della scienza può accadere però che un nuovo campo d’esperienza divenga pienamente comprensibile solo quando si compia l’enorme sforzo di ampliare questo quadro e di modificare la struttura stessa del pensiero”, a conferma della vicendevole influenza tra questa armatura innata e scienza che si esperisce e si evolve di continuo.
Dunque la letteratura, l’arte, la filosofia che strutturano la mente, l’Umanesimo in una parola si rende arbitro e ordine del pensiero, collante capace di congiungere le parti, di guardare ad ogni campo complessivamente: senza applicare un’innaturale separazione dei saperi e della prassi - ma rendendoli l’uno necessario ed utile teoricamente e pragmaticamente per l’altro. Infatti, secondo Edgar Morin - il filosofo francese padre della trasversalità del pensiero, che più di ogni altro ha ricercato nella sua “politica della civiltà” un approccio che guardasse alla complessità della conoscenza - la tendenza di ogni individuo “a sentirsi responsabile unicamente del proprio campo specializzato” escluderebbe l’idea di solidarietà e di visione globale – e non permetterebbe come ultima, dannosa conseguenza l’utilizzo della vera intelligenza: "È la riforma del pensiero che consentirebbe il pieno impiego dell'intelligenza per rispondere alle molteplici sfide e che permetterebbe il legame delle due culture disgiunte. Si tratta di una riforma non programmatica ma paradigmatica, poiché concerne la nostra attitudine a organizzare la conoscenza".
Ed in tal senso utilizza dunque le parole di Michel de Montaigne: "È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena". Una testa che non divida “le due culture” ovvero quella umanistica "che affronta la riflessione sui fondamentali problemi umani, stimola la riflessione sul sapere e favorisce l'integrazione personale delle conoscenze" e quella scientifica che "separa i campi della conoscenza, suscita straordinarie scoperte, geniali teorie, ma non una riflessione sul destino umano e sul divenire della scienza stessa".