
Eros Pagni
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Milano - Non ha nemmeno un nome il protagonista. Sappiamo solo chi si crede di essere dopo che batte la testa: Enrico IV. Un’identità regale. Che deciderà poi di non abbandonare. Perché a volte di fronte alla realtà, è meglio continuare a fare il matto. Che meraviglia il testo di Pirandello. Da martedì al Teatro Manzoni lo si vede nella versione firmata da Luca De Fusco. Con Eros Pagni nel ruolo del protagonista.
Pagni, come si sente nei panni di Enrico IV? "Ah guardi, continuano a riempirmi di complimenti, sono pure un po’ in imbarazzo. Certo il ruolo è importante, un vero punto di arrivo per un attore. Devo ammettere che ci sono arrivato con qualche acciacco. Ma spero di assolvere il mio compito con la professionalità che ho dimostrato in questi 60 anni di carriera".
Perché lo definisce un punto di arrivo? "In generale le difficoltà sono le solite. A cui si aggiunge però il fatto che di solito lo si affronta intorno ai 50/60 anni, mentre io ne ho 83 e quindi è un po’ diverso, anche se la cosa presuppone un discreto carico di esperienza... Il personaggio in sé è talmente complesso che non esistono terapie particolari per avvicinarlo. Ci sono solo intuizioni, sperando che risulti il più credibile possibile".
Non facile avere a che fare con la follia. "È così. Ma è l’intero testo ad essere complesso, difficile, estremamente profondo, non basta leggerlo un paio di volte e via. Infatti ancora oggi andando in scena scopro cose che due mesi fa nemmeno sfioravo. È un processo continuo di studio e di conoscenza. Dove ti accorgi che ogni tanto vorresti essere come il protagonista, che si crea lo scudo della pazzia per affrontare e comprendere la vita".
Per questo prosegue nella sua finzione? "È Pirandello che sottolinea come il suo risveglio sia triste, pensato, sofferto. Perché nel frattempo è crollato tutto intorno a lui. Da lì la decisione di continuare a fare il pazzo. Ma in maniera garbata, quieta, senza dare in escandescenze, nella consapevolezza. Un ragionamento che si collega all’oggi, visto che anche noi dovremmo porci un po’ di domande su chi siamo e come è cambiata la nostra vita, che certo non sarà mai più uguale a quella che abbiamo vissuto. Che poi è una delle grandi convinzioni di Enrico IV".
Quanto è centrale il concetto di verità? "Lo è in assoluto, almeno per un stanislavskijano come me. La ricerca per l’attore è la ricerca della verità. La scena in teatro permette di illuderci, di vivere situazioni che esulano dalla normalità. Ma che noi siamo tenuti ad affrontare con il massimo grado di verità e di chiarezza, senza sotterfugi. Tutta la mia carriera è stata improntata in questa direzione. E per lo stesso motivo preferisco non dire che interpreto Enrico IV: io faccio Enrico IV, lo vivo proprio. L’interpretazione implica sempre un certo artificio".
Rimane spazio per la fantasia? "Certamente ma deve essere spontanea. A quel punto ti viene in soccorso. E completa l’opera".