
La Bionda, un’altra delle immagini scattate esposte a Palazzo Reale
Milano 24 novembre 2016 - A Palazzo Reale, nell’appartamento del Principe, dove il pubblico può entrare gratuitamente, Bob Dylan era entrato come pittore nel 2013. E ora Vanessa Beecroft, onorata dell’accoglienza tra storici affreschi, specchi, tappezzerie, consolles sulle quali è «Vietato appoggiarsi», insomma in spazi non asettici che ormai esistono solo in Italia, si giustifica: «La fotografia non è il mio medium. Ma qui espongo blows-up di polaroid, che necessariamente hanno documentato, dal 1993 a oggi, i miei tableaux vivants di natura effimera».
Ingrandimenti, appunto, di polaroid rare, oltre che uniche e irripetibili per natura. Più di qualunque altro tipo d’immagine, oggetti «fisici» con una propria aura di opere d’arte, nel nostro tempo di comunicazione visiva sempre più rapida ed effimera. Comprensibile, eppur dispiace, che non ne abbiano esposto almeno qualche esemplare accanto agli ingrandimenti. Ma l’obiettivo della mostra-incursione (breve) in stanze nobilmente neoclassiche è soprattutto far riflettere su come un’artista donna, con una cultura profondamente radicata nella classicità (vedi le sue teste scolpite pure esposte) osservi volti e corpi di donna. Nella storia dell’arte, nella maggior parte dei casi, le donne sono state relegate al ruolo di muse ispiratrici (come confermano le pastorellerie e mitologie d’epoca disseminate proprio nelle decorazioni di Palazzo Reale), ovvero a un ruolo passivo. Il «male gaze», la posizione per cui la visione di un film è sempre mediata da uno sguardo maschile con cui lo spettatore s’immedesima e dal cui punto di vista trae piacere, non è dunque una prerogativa del cinema.
Pure la moda ha esaltato il paradosso per cui la donna, oggetto e destinatario principale della fotografia di moda, si trova a subire l’immagine. L’alternativa, «the Female Gaze» diventa così il titolo dell’ampio progetto co-curato da Alessia Glaviano e Chiara Bardelli Nonino al BASE MILANO in via Bergognone 34 (fino al 26 novembre). Un mosaico in cui sono elencati «gli autoritratti iconici di Cindy Sherman, quelli ironici di Juno Calypso o Arvida Byström, la femminilità fiabesca di Camilla Akrans, la sessualità palpabile di Amanda Charchian, l’erotismo giocoso di Ellen von Unwerth, o misterioso di Donna Trope, e gli sguardi non occidentali di Zanele Muholi, Lalla Assia Essady e Namsa Leuba». Tutte coinvolte nel Photo Vogue Festival, di cui le polaroid di Vanessa rappresentano le provocazioni ormai santificate.
Nella Milano capitale della moda, dove a lungo ha vissuto, prima di trasferirsi a Los Angeles, dice di aver avuto modo di «guardare Vogue e i fotografi di moda al lavoro». E anche questa esperienza deve aver accelerato la sua voglia di sovversione. Rappresentando un’idea di bellezza meno artificiale, una femminilità più complessa e sfaccettata, senza fermarsi davanti a segni, imperfezioni, argomenti tabù o luoghi comuni. «Un nuovo linguaggio, un nuovo modo di fare arte» asserisce la Glaviano. Certo le contemporanee «icone» femministe di Vanessa rendono ancor più difficile definire, con la semplice percezione, cosa è arte. Ma l’eventuale smarrimento dello spettatore è l’altra faccia di una società davvero ossessionata dall’esposizione mediatica.
«Vanessa Beecroft polaroids 1993.2016», Palazzo Reale, da oggi al 29 novembre.