Milano – “È nato in un Novecento che camminava di fretta e che Davis, con la sua musica, ha contribuito a velocizzare muovendo l’arte verso una dimensione diversa”, dice Paolo Fresu nello studio di SoundCheck, il formato musicale disponibile pure sul sito e sui social del nostro giornale, a proposito di “Kind of Miles” l’album (e lo show teatrale) che ha concepito sulla figura del Divino. “Da trombettista - spiega - mi chiedo cosa posso fare di più rispetto a quel che ha fatto lui, cosa posso aggiungere al costrutto del suo pensiero umano e artistico. Il mito, in fondo, è questo; qualcosa che possiamo riprendere e, guardandovi dentro, provare a portarlo in un luogo nuovo. Altrimenti il mondo si fermerebbe. Come dico nello spettacolo, il suo insegnamento è prezioso soprattutto oggi che i miti si accendono e si spengono con la velocità di una stella cadente”.
Lo spettacolo completa una trilogia teatrale avviata da “Tempo di Chet”, dedicato alla figura di Chet Baker, e proseguita da “Tango Macondo”.
“Da anni il direttore del Teatro Stabile di Bolzano, Walter Zambaldi, mi chiedeva un progetto teatrale, ma ero impaurito perché sono uno che dopo qualche giorno di lavoro sullo stesso progetto già scalpita. Alla fine, comunque accettai”.
E pensò a Chet Baker.
“Sì, per parlare a teatro dell’uomo, oltre che dell’artista, protagonista di una storia cinematografica che valeva la pena purtroppo raccontare per questa ‘dislessia’ tra una vita così caotica e una musica così perfettamente costruita. Diretto da Leo Muscato, lo spettacolo s’è rivelato un’esperienza straordinaria che abbiamo portato avanti per due anni, 120 repliche, e che continua ancora oggi anche se solo in forma di concerto. Così Zambaldi è tornato a farsi sotto e io gli ho proposto un progetto tra la Sardegna e il Sudamerica che parte dal libro ‘Il venditore di metafore’ di Salvatore Niffoi e arriva a Macondo”.
Terzo capitolo, Davis.
“Miles e Chet sono stati i primi due trombettisti che ho ascoltato in vita mia. Ho scoperto il jazz, infatti, grazie a Davis e a una versione di ‘Autumn leaves’ registrata dal vivo a Juan-Les -Pins nel ’63. Con la mia orchestra di musica da ballo suonavo ‘Le foglie morte’ ma ascoltando quella versione non riconobbi neppure il tema del pezzo che eseguivo tutte le sere. Mi sono detto se il jazz può fare questo, prendere una melodia semplicissima e trasformarla in un’opera d’arte, voglio suonarlo. Uno spettacolo su Davis m’è sembrato la giusta chiusura della trilogia sui musicisti da cui ho appreso l’essenza e la filosofia di questa musica”.
Come ha affrontato il personaggio Davis?
“Racconto Miles più che altro attraverso una filosofia di pensiero, quella che ha permeato la sua vita. E lo faccio raccontando pure me stesso, soprattutto i miei inizi: quello che attraverso Miles ho scoperto del jazz e il racconto dell’essenza del suono. Che cos’è il suono per me, che cos’era per Miles. Un po’ un excursus nella storia del jazz, ma soprattutto nella storia interiore di questa musica. Soprattutto in questo momento di un afflato poetico abbiamo molto bisogno con quello che sta accadendo nel mondo. E ritengo che la musica possa essere uno dei tanti strumenti di redenzione o di cambiamento, se lo vogliamo”.
La copertina reinventa il retro di quella di “Tutu”, ma non c’è niente di quel disco.
“Ho scelto di costruire un progetto musicale che non fosse quello di un cover band né filologico. Sono partito dall’idea di raccontare il Miles in bianco e nero, quello fino agli anni 70, e il Miles a colori. Non è casuale che i dischi si chiamino uno ‘Shadow’ e l’altro ‘Light’; ovviamente è un gioco, un divertissement, per il quale ho preso in prestito una bellissima idea di Joni Mitchell, mettendo assieme due formazioni, una acustica composta da Dino Rubino al pianoforte, Marco Bardoscia al contrabbasso, Stefano Bagnoli alla batteria e una elettrica con Christian Meyer alla batteria, Federico Malaman al basso elettrico, Filippo Vignato al trombone e alle tastiere. In mezzo Bebo Ferra con la sua chitarra e, ovviamente, io”.
Come ha diviso il lavoro?
“Il gruppo acustico esegue una serie di brani che contrappuntano in parte l’opera teatrale, penso a ‘‘Round midnight’, ad ‘Autumn leaves’. Questo è il disco acustico, fatto di standard spesso anche abbastanza sconosciuti, come ‘Diane’ o ‘It never entered my mind’, ma anche una versione di ‘Summertime’ in cui alla fine è citato ‘Kind of Blue’, che affiora pure nel disco elettrico da un brano di Malaman intitolato ‘MalaMiles’. Ma all’interno ci sono pure citazioni di ‘Bess, you is my woman now’ e ‘I loves you Porgy’. Nel disco elettrico ci sono, invece, solo composizioni originali più tre brani totalmente improvvisati e la cover di ‘Time after time’ che ha una sua funzione precisa all’interno dello spettacolo”.
A proposito di “Time after time”, le commistioni tra jazz, rock e pop, servono?
“Credo di sì. Da artista intelligente, Miles s’era reso conto che quel jazz estremamente popolare degli anni Cinquanta aveva perso completamente la sua forza. E che per arrivare al grande pubblico la sua musica andasse ‘vestita’ in maniera nuova. Credo ci sia riuscito.
In conclusione?
“Qual è il jazz di oggi? Difficilissimo capirlo. E proprio perché non siamo in grado di codificare il jazz del presente, l’unica cosa da fare è lasciarlo andare. Duke Ellington diceva che esistono solo due musiche: la buona e l’altra. Ecco, io prendo questo pensiero di Ellington e lo faccio mio tutti i giorni”.