DIEGO VINCENTI
Cultura e Spettacoli

Teatro Manzoni, il senso di Monica Guerritore per la felicità

Amore, tradimenti e crisi in 'Mariti e Mogli'

Monica Guerritore (La Presse)

Milano, 1 marzo 2018 - La danza dell’amore. O meglio: dei tradimenti. Che in «Mariti e Mogli» non si salva nessuno, con Woody Allen che si diverte a sparigliare le carte. Dal cinema a teatro. Sempre in compagnia di queste coppiette costrette a trascorrere la notte insieme. E a sudar fuori la propria insoddisfazione borghese. Da stasera al Manzoni, «Mariti e Mogli» è firmato da Monica Guerritore, anche in scena insieme a un solido cast, dove si segnala almeno Francesca Reggiani. Una specie di «Scene da un matrimonio» a cui hanno aggiunto battute, psicanalisi e Manhattan: una macchina perfetta. Di suo l’attrice romana ha portato Strindberg, una spruzzata di Cechov e molto (molto) fascino. Come si vede in questi giorni anche al cinema in «Puoi baciare lo sposo» di Genovesi.

Guerritore, come ha lavorato sul testo di Woody Allen?

«Nonostante di solito sia restio, è stato lui stesso a concederci i diritti grazie a Vittorio Storaro che gli ha spiegato del mio lavoro su Strindberg e dei tre anni alle prese con «Scene da un matrimonio». Credo che questa sensibilità sia stata decisiva, sono gli autori alla radice della sua sceneggiatura. L’unica cosa è che gli ho ricordato che in Italia c’è il teatro di regia».

Quindi?

«Quindi l’ho seguito fedelmente nella struttura. Ma la sua Manhattan è diventata un altro tipo di isola, una sala da ballo dove ci sono lezioni di danza e di cucina. Una scelta che mi ha permesso di inserire nel lavoro la musica, il vino, la notte, Dioniso. E poi il buio, che nasconde e che rivela».

Lei e Lavia vi lasciaste proprio durante «Scene da un matrimonio».

«Sì, come Bergman e la Ullman. Fu un periodo complicato, succede a tante coppie. Ma noi vivevamo gli alti e bassi ogni sera: rompevamo nel secondo atto, nel quarto provavamo a tornare insieme, nel quinto finivamo a letto».

Ma è così difficile essere felici nella coppia borghese?

«C’è un senso di inadeguatezza che non credo nasca da una mancanza di stabilità, quanto dalla distanza che c’è con l’idea dell’amore che abbiamo da bambini, quel sentimento puro e libero come una falena. Siamo un po’ allo sbando ma non è questione borghese, non c’è più o quasi quell’architettura apparente che copre qualsiasi cosa, come in «Downton Abbey»».

Nel lavoro cita anche Cechov.

«Nella scena in cui mangiamo tutti insieme e siamo lì a ridere e scherzare sul nulla, come nel terzo atto del «Giardino dei Ciliegi» mentre la proprietà va all’asta. Intorno succedono le cose più grandi ma i piccoli uomini parlano di cazzate. Se fossi stata Bob Wilson o Peter Stein avrei fatto crollare le pareti e mostrato l’inferno fuori dalla stanza».

Il suo debutto fu proprio nel Giardino di Strehler, che ricordo ha?

«Io seduta dietro di lui. Notti interminabili. Osservavo il palco mentre nascevano le luci, cambiavano le forme e i colori, il mondo lassù diventava qualcosa di diverso».

Lei era una ragazzina.

«Mi stupisco ancora oggi di quanta maturità avessi a 16 anni. Mi bevevo tutto quello che succedeva. Se ci pensa, cosa me ne doveva fregare delle luci? Perché non andavo subito a mangiare da Bice? Ma c’era questo fantasma interiore: la vocazione».